Per consolarsi, possono giusto guardare a come sono caduti in basso, nella considerazione popolare, i partiti. Peggio di loro, non c’è nessuno. Eppure, anche i sindacati se la passano tutt’altro che bene. In poco più di dieci anni, dal 2006 al 2017, la fiducia degli italiani nei loro confronti è scesa dal 48 al 30 per cento (quella nei partiti è arrivata al 16 per cento, il minimo storico). Più che un calo, un autentico crollo quello che certifica l’istituto di ricerche Ipsos, mettendo a confronto i sondaggi svolti in questo arco di tempo.
«Le organizzazioni sindacali — osserva Luca Comodo, responsabile della divisione politico-sociale di Ipsos — sono vittime di un fenomeno generale di sfiducia crescente nei partiti, nelle associazioni di categoria, nelle istituzioni. Stiamo assistendo a un processo di disintermediazione generale che non risparmia nessuno». Ed è anche per questo, o forse proprio per questo, che nei giorni scorsi Luigi Di Maio ha puntato il dito contro i rappresentanti dei lavoratori. «O si autoriformano o ci pensiamo noi» ha detto con un tono ultimativo che ha scatenato polemiche, a destra come a sinistra. Il candidato premier del Movimento 5 Stelle evidentemente sapeva di affondare la lama su un ventre molle.
Del resto, materia per riflettere ce n’è in abbondanza. I numeri aiutano a capire dove è cresciuta la sfiducia, in quali fasce d’età, tra quali lavoratori, dentro quali aree politiche. Partiamo dal dato anagrafico, allora. Il calo più rilevante si registra tra i 18 e i 24 (-23 per cento) e tra i 25 e i 34 anni (-28 per cento). «È l’età in cui è più forte la precarietà oppure si è alle prime esperienze di lavoro — spiega Comodo — qui è più avvertita la necessità di risposte alle esigenze di tutela». Risposte che, complici anche le riforme introdotte negli ultimi anni, sono state ritenute insufficienti o non adeguate.
Un riscontro diretto lo si ha quando ci si sposta ad analizzare il livello di gradimento a seconda delle categorie sociali. Scende in picchiata il giudizio dei disoccupati, -34 per cento, e quello dei pensionati, -24 per cento. Anche in questi due casi, chi è più debole manifesta maggiormente il disagio nei confronti di chi avrebbe il ruolo istituzionale di difendere le loro ragioni. Che si tratti di riguadagnare un’occupazione o di salvaguardare la pensione (sia da raggiungere, in termini di requisiti, sia da tutelare da tagli o modifiche ai diritti acquisiti), il sindacato non viene più ritenuto un presidio adeguato.
La dinamica del calo offre un’altra chiave di lettura: se è di 18 punti in 11 anni, 9 di questi vengono meno in soli 4 anni, dal 2013 al 2016. Non a caso, forse, il periodo caratterizzato dal breve governo di Enrico Letta e soprattutto dall’esecutivo guidato da Matteo Renzi che sul fronte del lavoro ha lasciato la sua impronta più marcata, a partire dall’introduzione del Jobs act. Il tracollo è un pesante giudizio negativo implicito, come se ai sindacati, che peraltro l’ex premier toscano ha sempre relegato ai margini eliminando la «concertazione», venisse imputato di non aver saputo fare argine alle riforme renziane.
Accusa che emerge, infine, anche a conforto del ragionamento precedente, dalla sfiducia che cresce a livelli vertiginosi tra gli elettori di sinistra (+36 per cento) e di centrosinistra (+32 per cento). Il fil rouge che lega tutti questi temi è chiaro. Il sindacato perde consensi proprio nei suoi tradizionali terreni di insediamento. Come se una squadra di calcio perdesse in casa.
Cesare Zapperi – Il Corriere della Sera – 4 ottobre 2017