(di Milena Gabanelli e Simona Ravizza – corriere.it) – Il medico fa la diagnosi, prescrive la cura, e il farmacista eroga il farmaco. Fra le due categorie non deve esserci nessuna commistione, così impone il regio decreto del 1934. Novant’anni dopo la Federazione dei titolari di farmacia italiani (Federfarma) sente il bisogno di allargare il raggio di azione: «La farmacia può dare un contributo importante alla riduzione delle liste d’attesa come erogatrice di servizi sanitari qualificati sul territorio». Vuol dire che il farmacista può sostituire il medico? O è il medico che va in farmacia? Vediamo di capire.
Le tre attività
In Italia ci sono 19.997 farmacie, una ogni 3.300 abitanti (qui art. 11 comma 1), e guadagnano con tre attività. La prima fonte di guadagno è la vendita di farmaci: per una scatola di compresse contro l’ipertensione (Ramipril) da 3,28 euro il margine è di almeno 1 euro; per una d’antibiotico (Amoxicillina) da 7,90 euro ne guadagnano 2,75; e per un anticoagulante (Enoxaparina) da 30,38 euro almeno 6,31 euro (Legge di bilancio 2024 art. 1 comma 225 qui). Per la distribuzione di farmaci antitumorali ad alto costo c’è la possibilità che una farmacia possa guadagnare fino a 200 euro per una scatola. Ci sono poi gli integratori, che i farmacisti suggeriscono con generosità, e piuttosto costosi. La seconda attività è la vendita di prodotti di bellezza: creme, rossetti, smalti, occhiali, orecchini, alcune propongono anche la pulizia del viso e la manicure. Considerando gli spazi che occupano questi scaffali, dove si trovano anche borracce e lampade portatili, sembrerebbe quasi il business primario. La terza è offrendo ai pazienti servizi sanitari.
Servizi a pagamento
La prima riforma che espande l’attività delle farmacie è di 15 anni fa, con il governo Berlusconi IV e ministri della Salute Maurizio Sacconi, poi Ferruccio Fazio. È allora che nasce la cosiddetta «farmacia dei servizi». Per fare cosa? Da tramite con i laboratori analisi per l’esame delle urine e la ricerca di sangue occulto, e tutti quei test di autocontrollo cioè gli esami che il paziente può farsi anche a casa da solo e la farmacia dà un po’ di supporto (qui art. 1 comma 1 e sentenze Tar qui). Il prelievo di una goccia di sangue dal polpastrello per misurare glicemia, colesterolo, trigliceridi, emoglobina, creatinina, transaminasi ed ematocrito. Il test per i livelli dell’ormone Fsa che servono a capire se le donne sono in menopausa (qui art. 2 e 3). E, infine, la verifica della pressione, la saturazione dell’ossigeno e la capacità polmonare con la spirometria (qui la legge-quadro n. 69/2009 art. 11, qui il decreto legislativo del 3 ottobre 2009 n. 153 che la recepisce, qui i suoi decreti attuativi). Tutti servizi per i quali non serve la ricetta medica e che le farmacie offrono a pagamento: non c’è un tabellario fisso, ma indicativamente possono andare dai 5 euro per la glicemia ai 18 euro per il colesterolo completo.
Cosa offre il servizio sanitario
A partire dal 2018 (qui art. 1 commi dal 403 al 406 bis) i cittadini in teoria possono fare in farmacia anche esami a carico del Servizio sanitario nazionale, ma non è ancora stato chiarito quali. Non risulta come siano stati spesi i finanziamenti erogati, e quello per il 2024 è di 25,3 milioni (qui art. 4 comma 7). Di fatto finora lo Stato rimborsa il servizio di prenotazione di visite ed esami medici tipo Cup (2,50 euro ciascuno) e le nuove attività introdotte con l’emergenza Covid, che si sono rivelate fondamentali: i test sierologici e i tamponi rimborsati dal Ssn a 15 euro l’uno (Legge 178/2020 qui art. 1 comma 418), il vaccino anti-Covid e l’antinfluenzale (qui), rimborsati rispettivamente 9,16 euro e 6,16.
Paletti contro il conflitto di interesse
Fin qui, comunque, il ruolo della farmacia è sempre stato di presidio sociosanitario e non l’alternativa alle prestazioni di diagnostica clinica fornite dagli ambulatori. Anche perché è tassativamente vietata qualsiasi attività di prescrizione e di diagnosi, nonché di prelievo di sangue o plasma mediante siringhe o dispositivi equivalenti (qui art. 1 comma 2) per evidente conflitto di interessi. Sul punto le norme sono molto chiare: il farmacista non può svolgere, direttamente o per interposta persona, l’attività medica a mezzo di ambulatorio (qui art. 102) e i medici, in quanto prescrittori di farmaci, non possono esercitare in farmacia (qui art. 45). Questi confini ora si stanno allentando.
Farmacisti in Parlamento
Il 30 settembre 2022, subito dopo le ultime elezioni politiche, Federfarma comunica che i farmacisti eletti in rappresentanza della categoria alla Camera dei deputati, sono quattro: Roberto Bagnasco per Forza Italia, Carlo Maccari, Marta Schifone e Marcello Gemmato per Fratelli d’Italia. Quest’ultimo viene nominato un mese dopo sottosegretario al ministero della Salute nel governo Meloni. L’unione fa la forza e il Ddl Semplificazioni del 26 marzo 2024 (art. 23 qui) cambia radicalmente le cose. Le farmacie possono somministrare qualunque tipo di vaccino sopra i 12 anni; fare da sportello per la scelta e revoca del medico di famiglia e del pediatra; vengono promossi i servizi di telemedicina come l’elettrocardiogramma e holter pressorio o cardiaco che saranno refertati da un medico a distanza (art. 23 qui e-sexies: «L’effettuazione da parte del farmacista, nei limiti delle proprie competenze professionali, dei servizi di telemedicina nel rispetto dei requisiti funzionali e dei livelli di servizio indicati nelle linee guida nazionali»); e soprattutto gli esami eseguiti non devono più rientrare nell’ambito di quelli che uno può farsi a casa da solo. In pratica salta il criterio dell’autocontrollo (qui punto b).
La svolta senza regole
Il 23 aprile Andrea Mandelli, già deputato di Forza Italia e già vicepresidente della Camera, nel suo discorso da presidente al Consiglio nazionale della Federazione degli Ordini dei farmacisti, esulta: «Si apre una nuova era (…). Il Governo riconosce ufficialmente servizi che molti di noi già offrono quotidianamente ai cittadini, ma ponendo al contempo le basi per il loro rimborso da parte del Servizio sanitario nazionale a fronte della presentazione di una ricetta medica da parte del paziente» (qui). Nella pratica le farmacie possono dunque trasformarsi in ambulatori di prossimità dove è possibile fare una diagnosi e poi vendere il farmaco per quella diagnosi. Il decreto prevede che per svolgere queste attività «possono utilizzare anche locali separati da quelli dove è ubicata la farmacia» purché all’interno del bacino di utenza. E possono anche mettersi insieme 2 o più farmacie e, in quei locali, ci potranno stare anche infermieri e fisioterapisti per fare medicazioni, iniezioni e rieducazione motoria (qui art. 3). In caso di locali esterni il decreto prevede l’autorizzazione dell’Asl, che deve accertare l’idoneità igienico-sanitaria degli spazi, ma non è previsto il rispetto dei requisiti richiesti agli ambulatori come la presenza di sala d’attesa, sala visita, servizi igienici (qui) e la presenza obbligatoria del direttore sanitario che svolge una funzione di controllo e di garanzia sulle qualità delle prestazioni – cioè che siano effettuate in sicurezza, da personale sanitario con adeguata preparazione, in condizioni igienico-sanitarie adeguate e in modo conforme alle regole di deontologia professionale (qui) –. Nulla di tutto ciò è previsto per le farmacie: è lo stesso direttore tecnico della farmacia a dover garantire questi aspetti pur senza avere le competenze specifiche di un direttore sanitario di un poliambulatorio. Per quel che riguarda il ruolo di controllo delle Asl può essere limitato prevalentemente alla vendita dei farmaci.
Il consumo sanitario
Per ridurre le liste d’attesa il servizio sanitario deve rinforzare gli ospedali e attivare le Case di comunità. Non ci sono altre scorciatoie. Far scendere in campo le farmacie potrebbe dare un contributo, ma è un’attività che deve essere regolamentata, e al momento non lo è. Di conseguenza si prospettano due rischi: quello di aumentare il consumo sanitario anche quando non c’è una reale necessità; e di correre dal medico al primo esame lievemente fuori parametro perché il farmacista, non avendo l’anamnesi che ci riguarda, non può valutarlo in un quadro complessivo. Con il risultato di allungare le liste d’attesa invece di alleggerirle.