La Stampa. «Contro il cibo in provetta è meglio una vera porchetta». Ai circa cento agricoltori che hanno manifestato alla fiera agroalimentare «Cibus» di Parma con questo slogan non è bastata l’approvazione in Consiglio dei Ministri del decreto legge. Vogliono che sullo stop al cibo sintetico si acceleri. Nel testo del provvedimento, fortemente voluto dal titolare all’Agricoltura Francesco Lollobrigida (FdI) e licenziato dall’esecutivo di Giorgia Meloni martedì, si esplicita il divieto «di impiegare, vendere, importare, esportare, distribuire alimenti o mangimi costituiti a partire da colture cellulari o da tessuti derivanti da animali vertebrati». In altre parole, cibo in provetta, come lo chiamano i fedayyin del prodotto nostrano. Le sanzioni previste saranno salate: da 10 mila a 60 mila euro, oppure fino al 10% del fatturato annuo di chi contravviene al divieto.
L’incognita potrebbe essere il parere dell’Efsa (autorità Ue per la sicurezza alimentare): se dovesse approvarne l’uso negli Stati membri, l’Italia non potrebbe opporsi alla distribuzione per via delle regole comunitarie della libera circolazione dei beni e dei servizi. E di conseguenza il provvedimento del governo diverrebbe sostanzialmente privo di efficacia.
La crociata degli allevatori, però, apre in Italia un capitolo dai contorni ancora troppo sfumati, nonostante le posizioni antitetiche di favorevoli e contrari. I fautori del Made in Italy – secondo Coldiretti lo stop promosso dal governo «salva 580 miliardi di euro di valore della filiera agroalimentare nazionale» – sostengono che l’intero comparto sarebbe a rischio, con in bilico circa 4 milioni di posti di lavoro in 740 mila aziende agricole, 70 mila industrie alimentari, oltre 330 mila realtà della ristorazione e ben 230 mila punti vendita al dettaglio. I favorevoli, invece, ritengono che la strada della produzione di carne coltivata, o carne «pulita», come la chiamano gli ambientalisti, sia l’unica per evitare il disastro climatico acuito dai gas serra degli allevamenti e dall’impiego massivo di acqua. L’allevamento intensivo di animali, necessario per soddisfare la domanda di carne, impatta sull’ambiente con il 30% di utilizzo di suolo e circa l’8% di acqua dolce, generando il 17% dei gas serra del pianeta. Uno studio dell’Università di Oxford, «Environmental Impacts of Cultured Meat Production», ha concluso che, rispetto alla carne prodotta in modo tradizionale, quella di laboratorio potrebbe ridurre le emissioni di Co2 del 96%, con un consumo d’acqua inferiore fino al 95%, ed energetico tra il 7 e il 45%. Anche gli animalisti hanno abbracciato questa battaglia in difesa della carne sintetica che fermerebbe la macellazione degli animali.
Come sempre, in Italia, l’opinione pubblica si è spaccata mentre gli esperti invitano alla cautela. «Quella di vietare i cibi artificiali, in particolare la carne, è una misura di prudenza. Ma chiudersi completamente alle nuove tecnologie è un errore», sostiene il professor Paolo Ajmone, ordinario di Miglioramento genetico animale all’Università Cattolica di Piacenza e direttore della Scuola di Dottorato del Sistema Agroalimentare Agrisystem. «Ne sappiamo ancora poco, è fondamentale che la ricerca vada avanti», aggiunge. Ajmone sostiene infatti che siano ancora molti gli aspetti da verificare. In primis gli effetti che questi alimenti possono avere sulla salute umana. «L’analisi va condotta su tre livelli: quali sono i vantaggi per l’uomo, quali per l’ambiente e quali per l’economia. Dal punto di vista strettamente clinico, bisogna ancora chiarire con esattezza se le caratteristiche della carne sintetica soddisfano gli standard nutrizionali e di sicurezza alimentare. Teniamo conto che, per crescere in vitro, la carne ha bisogno di ormoni. E quegli ormoni poi restano nel prodotto finito che noi mangiamo». Quanto alla sostenibilità ambientale, il risparmio d’acqua sarebbe evidente anche se «si stanno studiando sistemi per il recupero e la purificazione delle acque reflue degli allevamenti per creare un riciclo virtuoso», spiega Ajmone. Ma «il processo di produzione della carne in vitro viene sviluppato in contesto di totale sterilità e in bioreattori: su scala industriale è un meccanismo altamente energivoro». Quanto alla sostenibilità economica su larga scala e all’accessibilità al prodotto, è bene considerare gli elevati costi di produzione, sempre secondo Oxford. «Al momento – sostiene Ajmone – non possiamo pensare a un processo produttivo, men che meno a un’esportazione della tecnologia di produzione in Paesi in via di sviluppo. Per cui, siamo ancora in una fase di test e di osservazione dei risultati. Accelerare i tempi vorrebbe dire creare un prodotto di nicchia, per ricchi, a costi troppo elevati». —