La Commissione Europea ha avviato la discussione con gli Stati membri per fissare i limiti massimi negli alimenti per i 4 PFAS (PFOA, PFNA, PFHxS, e PFOS) oggetto dell’opinione EFSA del 2020. La questione appare alquanto critica dato il valore guida per la salute umana molto conservativo fissato da EFSA (4 ng/kg peso corporeo/settimana), che se trasposto in limiti di contaminazione obiettivo, comporterebbe la messa fuori dal mercato di gran parte degli alimenti oggi prodotti. Inoltre, i laboratori non sembrano ancora sufficientemente intercalibrati per raggiungere i livelli di performance analitica richiesti. La legislazione alimentare in divenire risulta peraltro differente e meno prospettica da quella prevista oggi per le acque potabili, che ha posto doppi limiti a 24 PFAS e ai PFAS totali. Inoltre la normativa alimentare non sembra armonizzata con la Direttiva Quadro delle Acque, che fissa ad esempio per il PFOS uno Standard Di Qualità Ambientale (SQA) per la risorsa ittica destinata al consumo umano, tenendo conto degli effettivi consumi di pesce. Si è in attesa anche di una Raccomandazione che specifichi l’estensione della ricerca ad altri PFAS emergenti, fornisca le linee guida per l’indagine epidemiologica in caso di non conformità e soprattutto sia capace di avere un approccio trasversale con le altre legislazioni, data la presenza ubiquitaria di tali “forever chemicals”.
Sul suo sito istituzionale presso il BfR tedesco di Berlino, il Laboratorio Europeo di Riferimento per i composti organo-alogenati negli alimenti e nei mangimi mette a libera consultazione i criteri alla base dell’analisi dei PFAS in matrici alimentari, a supporto dei piani nazionali di monitoraggio in relazione ai livelli massimi che la Commissione Europea intende stabilire.
Dalla lettura del documento appare subito evidente la difficoltà nella definizione dei limiti massimi di contaminazione, dei livelli di allerta (che indica una contaminazione superiore ai livelli ritenuti “basali”) e dei livelli obiettivo, ovverossia livelli di garanzia per il consumatore verso una sovraesposizione rispetto al valore tossicologico guida per la salute umana.
Le “performances” analitiche ai fini della valutazione dell’esposizione alimentare dovranno concentrarsi soprattutto sui 4 PFAS per cui EFSA nel 2020 ha ritenuto ci fossero sufficienti evidenze per derivare un livello guida per la salute umana, cumulativo per PFHxS, PFOS, PFOA e PFNA (pari a 4,4 ng/ kg peso corporeo per settimana – TWI).
Per soddisfare i requisiti di “conformità” rispetto ai limiti di legge in corso di definizione (vedi sotto tabella dedicata), i metodi analitici dovranno comunque garantire i seguenti limiti minimi di quantificazione: per il rispetto dei limiti massimi attualmente in fase di definizione a livello di Commissione Europea
Tuttavia, visto che alcuni alimenti seppure poco contaminati, possono contribuire in maniera importante alla esposizione alimentare, in virtù degli alti consumi da parte della popolazione, è auspicabile che si raggiungano i seguenti livelli prestazionali del metodo analitico. (tabella a fianco)
Al momento attuale, risulta estremamente improbabile che tutti i laboratori ufficiali riescano ad ottenere le performance analitiche richieste, soprattutto tenendo conto che la ubiquitarietà dei PFAS comporta quasi sempre la presenza di un “segnale” di fondo anche nei cosiddetti campioni procedurali “bianchi”, quale risultato della contaminazione dei reagenti, materiali per la estrazione e purificazione, parti “teflonate” della strumentazione scientifica.
D’altra parte, la Commissione Europea, in mancanza di una forte implementazione delle politiche di sostituzione e riduzione dei PFAS nei processi produttivi e manufatturieri – vedi Regolamento REACH -, è propensa a porre un limite “sostenibile” di contaminazione per evitare che troppo alimento venga posto fuori dal mercato (food security): ci si sta orientando verso il 95° percentile della curva di distribuzione, che può essere stabilito solo in presenza di una adeguata rappresentatività di risultati quantificati per la stessa matrice (es. uova, pesce, …) .
Di seguito un breve riassunto dei limiti che si stanno discutendo negli alimenti, in microgrammi/Kg (ppb), per i PFAS su cui EFSA si è espressa per la parte tossicologica.
Laddove la risorsa ittica risulta la più analizzata per i PFAS, in virtù anche dell’implementazione delle direttive ambientali sulle acque superficiali e costiere (Water Framework Directive) e marine (Marine Framework Directive), il dettaglio residuale è più delineato.
Per il latte ad esempio, al momento non è previsto alcun limite residuale, nonostante possa rappresentare un importante via di esposizione proprio per le quantità consumate giornalmente/settimanalmente.
Appare subito evidente come ad esempio per la risorsa ittica, i limiti massimi proposti per alcune specie siano in palese contrasto con quanto previsto per il PFOS nell’ambito della Water Framework Directive, nonostante questa ultima abbia posto un Standard di Qualità Ambientale rilevante per la salute umana di 9,1 microgrammi/ Kg, in base al vecchio e ormai superato TDI di 150 ng/kg peso corporeo/giorno di EFSA 2008 per il PFOS.
L’altro aspetto riguarda la “lista” positiva di PFAS da ricercare limitata, laddove ad esempio nella direttiva “acque potabili” ormai si è orientati a considerare tali sostanze come un’unica classe, con un limite proposto per i PFAS totali (per inciso 0,5 microgrammi/Litro). Nello specifico, se viene riportata la possibilità di estendere l’analisi a PFAS conosciuti come GenX, ADONA, F 53-B, Capstone A e B, non c’è nessuna menzione di altri PFAS che hanno sostituito il PFOA dal 2013 per cui esiste ormai la consolidata evidenza della loro presenza in matrici alimentari: è il caso dei perfluoroeteri sulfonati e carbossilati, con le loro sostituzioni alogene come del caso dei Cloro Perfluoro Eteri Carbossilati, di recente interesse in Italia, in quanto prodotti, utilizzati, e rilasciati nell’ambiente, con interessamento delle catene alimentari.
A tale proposito, è sempre intenzione della Commissione proporre una lista positiva, ma non esaustiva dei PFAS ritenuti di interesse per gli aspetti alimentari.
In tempi di peste suina africana, e con la possibilità di utilizzare gli animali abbattuti per indagini ambientali/alimentari, appare interessante approfondire il dettaglio legislativo nelle carni di cinghiale.
Da quanto risulta dai dati Italiani sui PFAS, i livelli di contaminazione nei fegati e muscolo di cinghiale di sicuro comportano la amplissima esclusione di tale alimento dalla catena alimentare.
Per quanto riguarda il pesce nazionale allevato e pescato a mare, non ci sono soverchi problemi, e ad esempio il livello limite di 35 microgrammi/kg per le acciughe sembra oltremodo alto, rispetto ad una massima contaminazione rilevata nel pescato mediterraneo tra gli 8-10 microgrammi/kg.
E per le zone del Veneto “impattate” dal ciclo PFAS ex-Miteni? Il recente lavoro pubblicato sulla Rivista Epidemiologia e Prevenzione nel Novembre 2021 (Zamboni et al.,) evidenzia come i dati della contaminazione degli alimenti resi disponibili dalla Regione Veneto possano non essere sufficientemente rappresentativi della situazione di campo nei comuni interessati dall’inquinamento sia delle acque superficiali che di falda.
Inoltre, la Commissione Europea ed EFSA, nello stabilire i valori guida di contaminazione massima e di tutela della salute, hanno deliberatamente escluso i cosiddetti hot spots, in quanto non rappresentativi delle situazioni di esposizione “generale”.
A completezza informativa, comunque, si riporta in figura la Tabella riassuntiva pubblicata da GreenPeace (i valori riportati in ng/kg devono essere divisi per 1000, per una comparazione con i limiti massimi alimentari proposti dalla Commissione Europea). I dati disaggregati resi disponibili dalle Organizzazioni Non Governative sono uno spunto per una più approfondita valutazione di quanto potrebbe non essere più posto al libero commercio, su base di produzione locale e geo-referenziata. La legislazione va detto non si pone il problema per l’auto-consumo.
Ad una prima letta, il problema più importante si può rilevare per i fegati dei suini allevati e per le uova, con qualche limitazione anche per il muscolo di suino, per quanto riguarda appunto la somma dei 4 PFAS EFSA 2020.
A fianco. Risultati aggregati messi a disposizione da GreenPeace e Mamme no PFAS per il piano di monitoraggio alimenti della Regione Veneto 2017.
Per i mangimi, in base ai dati tossicocinetici disponibili da animali naturalmente o sperimentalmente esposti a mangimi contaminati da PFAS, si cercherà di stabilire il limite massimo di contaminazione compatibile con il mancato superamento dei livelli massimi residuali nella derrata di origine animale.
Conclusioni
La normativa europea sui PFAS negli alimenti non sembra essere innovativa, prospettica come quella stabilita per le acque potabili. Probabilmente si sconta una difficoltà nel portare i laboratori ufficiali a livelli di qualità analitica tali da garantire risultati utili anche per valutazioni di esposizione, considerando le matrici a bassa contaminazione ma ad elevato consumo (vedi latte).
Non è ancora chiaro come i dati che probabilmente verranno limitati alle matrici con limiti di legge fissati in una prima fase, possano aiutare una valutazione dell’esposizione alimentare, specie se come è probabile, nuovi PFAS presto avranno dati sufficienti per una valutazione tossicologica per esposizione “cumulativa”.
Lo sguardo alimentare da quanto oggi disponibile è soprattutto retrospettivo verso i PFAS conosciuti e ormai in gran parte sostituiti nei processi produttivi, senza un minimo accenno a quelli di nuova generazione, per cui non sempre sono disponibili gli standards certificati, a fronte di crescenti evidenze sulla loro presenza nel sangue umano e nel biota, anche in gruppi non esposti professionalmente.
A questo proposito sarà dirimente la Raccomandazione specifica in merito a come orientare i piani di monitoraggio alimentare, raccomandazione che a livello Nazionale e Regionale potrà essere integrata con una estensione alle molecole e matrici da analizzare, sulla base delle evidenze ambientali, sanitarie e di biomonitoraggio.
A questa Raccomandazione dovranno poi essere aggiunte le indicazioni per l’indagine epidemiologica, atta a tracciare l’origine e provenienza della contaminazione: e qui entreranno in gioco non solo i mangimi, ma acqua, suolo, aria ed alcuni materiali a contatto con gli animali e gli alimenti, e probabilmente, metodi di analisi più evoluti, di fatto già implementati in altri stati quali Germania, Paesi Bassi, Danimarca, Norvegia e Svezia, che presenteranno entro il 2022 una proposta per la restrizione all’uso di tutti i PFAS.
Mamme NO PFAS e Greenpeace PFAS negli alimenti dell’area rossa del Veneto
(A cura della redazione del Sivemp Veneto – riproduzione ammessa solo citando la fonte)
13 marzo 2022