Italia ultima della classe per la spesa in essere, virtuosa se si guarda al futuro
La manovra appena approvata – una manovra discutibile, ma necessaria per scongiurare una crisi da debito pubblico – è pesante per quanto riguarda le pensioni. Ed è proprio sulla questione delle pensioni che l’Italia esibisce uno dei tanti paradossi che segnano la nostra convivenza.
È diventato quasi proverbiale lamentare il peso delle pensioni sulla nostra finanza pubblica. E a guardare i grandi numeri questa lamentela è certamente fondata. La spesa per le pensioni in rapporto al valore di quel che viene prodotto in Italia (Pil) è la più pesante in Europa. Ed è così da molto tempo. A prima vista, sembra quindi giusto, quando diventa inevitabile agire sulla spesa, colpire le pensioni. Ma come si concilia questo grosso peso della spesa pensionistica con l’esistenza di tante pensioni di importo esiguo? Si concilia perché nel passato le pensioni sono state usate a scopo assistenziale, concedendo vitalizi anche a chi aveva lavorato poco o a chi si trovava in particolari condizioni: non a caso, sempre guardando ai confronti internazionali, la nostra spesa per pensioni è record, ma la spesa sociale complessiva è bassa: segno che quella parte della spesa so ciale – assistenza, sanità… – che non riguarda le pensioni è particolarmente modesta Ma veniamo al paradosso. Proprio perché la spesa per pensioni è un fardello pesante, già da vent’anni tutte le manovre di contenimento della spesa hanno cercato di stringere sulle pensioni. Certamente, non si può ridurre quelle già in essere. Si può agire al margine, riducendo privilegi e benefici per i pensionandi futuri. E questo è stato fatto, al limite dell’ingiustizia. Per esempio, l’Italia è l’unico Paese dove le pensioni non sono pienamente indicizzate ai prezzi. Negli altri Paesi, o sono indicizzate ai salari (come era in Italia prima della riforma Amato del 1992) o sono indicizzate al costo della vita. E la manovra appena approvata ha ulteriormente limato questa indicizzazione. Inoltre, abbiamo innalzato l’età pensionabile; questa è una misura sacrosanta: se si vive più a lungo, si può anche lavorare più a lungo, altrimenti, con l’allungamento della vita si finisce col ricevere dalla pensione – che è un salario differito! – molto di più rispetto ai contributi che abbiamo versato. E abbiamo anche, correttamente, indicizzato l’età di pensionamento agli anni medi residui (speranza di vita). Riforme, queste, scaglionate fra il 1992 e il 2009, che sono un modello per il resto dell’Europa (come ha riconosciuto una recente analisi dell’Economist). Uno studio della Commissione europea conclude che, malgrado l’invecchiamento della popolazione, la spesa per pensioni in rapporto al Pil diminuirà in Italia, sia pure di poco, mentre aumenterà, per quasi 3 punti di Pil, negli altri Paesi dell’euro. Il paradosso quindi sta nel fatto che perla spesa pensionistica siamo gli ultimi della classe se guardiamo alla situazione in essere, e i primi della classe se guardiamo al futuro. Naturalmente, la consolazione è magra, perché vuol dire che chi andrà in pensione avrà trattamenti molto più ridotti rispetto a quelli goduti dai padri o dalle madri. Chi è già in pensione non potrà contare su un pieno adeguamento ai prezzi (questo rimane solo per le pensioni minime), e chi ancora ci deve andare ci andrà più tardi e riceverà di meno rispetto al passato (anche se godrà della pensione per un tempo più lungo, dato l’allungamento della vita). A tutti questi sacrifici si potrebbe ovviare se l’economia italiana riprendesse a crescere (sarebbe più facile risparmiare per una pensione integrativa). Ma questo è un altro problema.
Ilsole24ore.com – 25 luglio 2011