Gli occhi di Abelardo sono due fessure in un viso di pietra. Sembrano scrutare il mare anche quando lui è sulla terraferma, al molo di Fano dove rientrano i pescherecci inseguiti dai gabbiani e i marinai battono le reti con un gesto lento e ripetitivo. Antico. «Vengo dallo Yucatan, mi sono trasferito qui quattordici anni fa. Mi trovo molto bene».
In Messico pescava tonni, ora nelle acque dell’Adriatico pesca un po’ di tutto. Insieme ad Abelardo sulla barca, dalla quale stanno scaricando cassette di sogliole, lavorano marinai italiani e ragazzi dello Sri Lanka. «Sono bravissimi, facevano i pescatori anche nel loro paese. Parlano male la nostra lingua, ma tra la gente di mare ci si capisce lo stesso», racconta Antonio Gaudenzi, l’armatore del peschereccio. I suoi marinai hanno un contratto a tempo indeterminato (o di un anno per gli stranieri), paga base tra 900 e 1300 euro netti al mese, più una percentuale sulla vendita del pescato. È il contratto “alla parte” che regola un po’ tutto il settore in Italia. L’equipaggio è una squadra affiatata, quasi una famiglia. Ognuno si fida dell’altro.
Verrebbe voglia di raccontarla così la pesca italiana. O magari descrivendo la lunga teoria di “vongolare” che ogni notte, nel buio e nel freddo che annunciano l’alba, escono dal porto di Fano e vanno a “cavare” vongole in fazzoletti di fondali distribuiti tra le barche quasi fossero terreni da arare. I capitani sanno esattamente quanti sacchi pescare quel giorno, in base alla domanda arrivata dal mercato. Una flotta che funziona come un orologio perfetto.
Ma sono eccezioni in un mondo ormai in declino. La pesca italiana, nell’indifferenza della politica e delle istituzioni, sta morendo: negli ultimi trent’anni, su 8mila chilometri di coste, le imbarcazioni sono diminuite del 33% a 12mila scafi con un’età media di 34 anni (solo a Mazara del Vallo i pescherecci d’altura sono crollati da 400 a 80); si sono persi 18mila posti in un settore che oggi dà lavoro a 27mila persone; il 74% del prodotto consumato in Italia è importato, anche da paesi remoti come Cile o Filippine (il famigerato pangasio del Mekong venduto come cernia, il filetto di brosme spacciato per baccalà, l’halibut o la lenguata senegalese commercializzati come sogliole…).
Le cause di questa crisi infinita si intrecciano e si rincorrono: la concorrenza dei mari lontani o delle barche croate, albanesi, nordafricane, ha innescato un crollo delle quotazioni del pesce che mettono fuori mercato i pescatori italiani e i loro costi dell’attività (stipendi, gasolio, manutenzione…): nel 1988 il prezzo medio della triglia era di 13mila lire al chilo, oggi non va oltre i 4 euro, mentre i costi della produzione sono aumentati del 200%. Le regole dell’Unione europea, che tra l’altro sembra privilegiare l’acquacoltura, si sono trasformate in zavorre insopportabili. Le abitudini delle famiglie italiane, sempre più spostate verso il consumo di pesce spinato («comodo da cucinare, ma senza sapore. Tipo la rana pescatrice dell’Alaska», dicono perplessi gli stessi marinai), penalizzano i prodotti del mare nostrum. E poi il mancato ricambio generazionale, le gelosie e le rivalità tra i pescatori (in Francia ci sono solo 7/8 organizzazioni dei produttori, in Italia 54). Lo spopolamento di acque e fondali. Gli effetti del fermo biologico non tarato su singole zone o sulle varie specie.
«È una guerra tra poveri – spiega Tonino Giardini, responsabile di Impresa Pesca Coldiretti e proprietario, con la famiglia, di due barche per lo “strascico” -. Il pescatore italiano è alla mercé del mercato all’ingrosso: chi compra fa leva sulle quotazioni del pesce importato e offre cifre irrisorie ai nostri pescatori che devono sopportare costi ben più alti di quelli degli egiziani, dei libici, dei tunisini. Senza contare Bruxelles, forte con i paesi membri e debole con gli altri». I vincoli sulle misure delle vongole, per intenderci, o sulla tenuta obbligatoria a bordo del “libro del pescato” (un tablet che traccia ogni singolo pesce). Per non parlare del sistema delle quote per la caccia al tonno, prodotto ad altissima redditività: succede, ad esempio, che in tutto l’Adriatico c’è una sola barca italiana autorizzata a pescarlo, mentre croati e albanesi non hanno limiti. «In questo mare c’è tanto ton-della no, ce lo dice ogni giorno lo scandaglio, ma se finisce nelle reti possiamo solo mangiarcelo perché la regola delle quote ci vieta di venderlo. È assurdo» si sfoga William Piscaglia, il comandante di un peschereccio, che incontriamo sotto la pioggia gelida all’ingresso del mercato ittico di Cesenatico. Dentro, l’asta va in scena con pochi acquirenti sparsi nell’anfiteatro che un tempo lontano si riempiva di urla e battute in romagnolo stretto. Sulle pareti sono dipinti i colori e i segni delle vele, i nomi e i soprannomi dei “paroni” e dei capibarca: una sfilza per lo più di fantasmi.
Di fronte a questa deriva senza fine, c’è chi vorrebbe imitare l’esperienza dell’agricoltura: «I pescatori – dice Giardini – dovrebbero appropriarsi dell’intera filiera, non limitandosi a “cavare” pesce dal mare ma trasformandolo loro stessi e puntando alla vendita diretta. Così si sottrarrebbero alla morsa della grande distribuzione e il pesce non sarebbe più solo una commodity». Qualche esperimento del genere ha preso piede. Sono i più giovani a provarci, ma sono rarissime eccezioni: «Il pescatore deve svegliarsi, il mondo è cambiato. Ormai la grande distribuzione si lavora il pesce da sola. Dovremmo farlo noi, invece », sottolinea Fabio Lacchini, trent’anni, armatore di Cesenatico. Anche i vongolari di Fano e Cattolica (una sessantina di barche in tutto) si sono organizzati in consorzio e si autogestiscono.
Siamo saliti a bordo della Stella Azzurra II di Massimo Dominici e Paolo Marcantognini, con il marinaio Franco Montanari, per una “bordata”: tra la notte e l’alba, hanno pescato sessanta chili di vongole, precisamente quanto era previsto dagli ordinativi. Un valore complessivo di 1500 euro dal quale andranno scalati i costi. Al porto i sacchi già confezionati a bordo sono stati velocemente caricati sui camion e trasportati via. Un’efficienza che consente alle vongolare e a chi ci lavora di sopravvivere dignitosamente: «Esportiamo quasi tutto in Spagna perché in Italia, a parte qualche grande città, il consumo di vongole è inesistente – racconta Dominici -. Ma dobbiamo fare i conti con le regole europee sulle misure delle vongole e sulla qualità delle acque. Rischiamo sanzioni fino a 12mila euro».
Viaggiando nei porti dell’Adriatico, che rappresentano insieme alla Sicilia l’80% della pesca italiana, si ha l’impressione di un mondo che non ha la forza di reagire e che non può contare sul supporto di una vera politica industriale. Certo, i pescatori pagano anche la loro cultura tradizionalmente “anarchica” e romantica. Piuttosto che cercare soluzioni condivise, ci si combatte tra le diverse categorie di pescatori se non addirittura tra i singoli pescherecci. Lo dimostra la risposta alla crisi arrivata da molti armatori che, anche eludendo le regole sulle agevolazioni fiscali per il carburante, hanno puntato tutto su barche più potenti. Ma il saldo finale non è cambiato, perché una pesca più industriale vuol dire anche costi di produzione più alti.
Senza considerare i danni dell’attività intensiva al delicato equilibrio ambientale, un vero boomerang. «Certe reti moderne hanno fatto scomparire alcune specie, come le capesante. Si pesca troppo, si va in mare anche quando c’è brutto tempo. Invece servirebbe uno stop ogni weekend. Per tutti», dice Mauro Facchini che comanda un peschereccio specializzato in alici e sarde.
Anche la politica del fermo biologico ha fallito i suoi obiettivi: i pescatori la condividono, ma vorrebbero fosse più flessibile, più articolata tra zone di mare e specie, anche a costo di rinunciare agli indennizzi. Se parli con loro, assicurano che di pesce nei nostri mari ce n’è ancora a sufficienza per tutti. Non la pensano esattamente così i biologi marini: «Il prelievo nel Mediterraneo negli ultimi quarant’anni è stato eccessivo – spiega Ferdinando Boero, docente di zoologia all’Università del Salento -. Ormai l’offerta è molto inferiore alla domanda. Andrebbe privilegiata la pesca artigianale: barche piccole, reti a maglie larghe, fermi biologici a scacchiera. Le risorse marine non sono inesauribili, però cinque anni di stop basterebbero a ripopolare interi tratti di mare. Va respinta una gestione fallimentare, prima che sia troppo tardi».
Prima che a pescare rimangano solo i delfini che ormai si sono ingegnati e riescono sempre più spesso a “rubare” il pesce dalle reti. «Mancavano solo loro», sussurra sconsolato sul molo il comandante Facchini, mentre dal mare arrivano le grida dei gabbiani: una barca sta rientrando carica di pesce. Ma è piccola e solitaria sulla tavola calma dell’Adriatico.
Repubblica – 18 novembre 2016