Prima il Congresso che, capovolgendo la decisione di due settimane fa, ha concesso alla Casa Bianca la «corsia preferenziale» che dà al presidente l’autorità necessaria per firmare i trattati di libero scambio coi Paesi asiatici del Pacifico e con l’Unione Europea. E ieri la Corte Suprema ha spazzato via l’ultima spada di Damocle su una riforma sanitaria che, benché varata cinque anni fa, è rimasta fin qui sempre in bilico per i continuai attacchi dei repubblicani che hanno provato oltre 50 volte a sopprimerla e per la rivolta dei governatori conservatori che si sono rifiutati di applicarla nei loro Stati.
Dopo diversi rovesci, soprattutto nei rapporti internazionali, che sembravano aver compromesso molto del lavoro fatto durante la sua presidenza, in soli due giorni Barack Obama è riuscito a piantare due pilastri fondamentali della sua «legacy»: l’eredita politica che la sua presidenza lascerà all’America. Quando, tra un anno e mezzo, completerà il suo secondo mandato, il leader democratico non si lascerà alle spalle un Paese con meno diseguaglianze né un Medio Oriente pacificato, ma avrà legato stabilmente i Paesi amici dell’Asia e dell’Europa in una rete di relazioni commerciali virtualmente irreversibile: non è detto che basterà, come ha promesso Obama, ad aumentare sostanzialmente il Pil e l’occupazione, ma certamente rafforzerà i legami tra le nazioni di queste aree, gradualmente sostituendo le alleanze militari con quelle economiche.
Quanto alla società americana, il principale contributo dato da questa presidenza per alleviare le condizioni di vita delle fasce più deboli della popolazione era venuto proprio dalla riforma sanitaria voluta da Obama che, sia pure con molte farraginosità e ritardi, ha consentito di estendere la copertura medica a 17 milioni di americani che ne erano privi. Quello Usa continua a non essere un sistema universale (20-25 milioni di cittadini ancora privi di copertura) e rimane un meccanismo troppo costoso, ma con Obamacare, i suoi sussidi per chi non può pagarsi una polizza e gli «exchange», i mercati introdotti dalla riforma che hanno fatto calare il costo delle offerte assicurative, Obama lascia una sanità più umana ed efficiente.
Un meccanismo che rischiava di essere scardinato dal ricorso di alcuni Stati conservatori che avevano messo in dubbio la costituzionalità del contributo pubblico alle polizze dei non abbienti. In effetti il testo della riforma ammetteva esplicitamente i sussidi solo per gli «exchange» organizzati dai singoli Stati. Ma in più di metà del Paese questi mercati delle polizze sono stati organizzati dal governo federale a causa dell’inerzia o dell’opposizione dei governatori repubblicani. Che hanno fatto ricorso.
Per molto tempo la Corte è apparsa incerta: se avesse rispettato alla lettera il testo legislativo si sarebbe aperto un grosso problema sociale e anche politico, con milioni di famiglie che avrebbero perso da un giorno all’altro il diritto alle cure mediche. Una prospettiva che, al di là dei proclami, spaventava anche i repubblicani.
Alla fine la magistratura suprema, che già tre anni fa aveva respinto il primo assalto dei conservatori contro la riforma, ha deciso con una maggioranza piuttosto ampia (6 giudici favorevoli, 3 contrari) di considerare legittimo l’attuale sistema di finanziamento delle polizze assicurative. È stato lo stesso presidente della Corte, il conservatore John Roberts, a spiegare nelle motivazioni che l’attuale applicazione della riforma è conforme allo spirito dei legislatori che certamente volevano costruire un sistema assicurativo sostenibile, non distruggerlo. I giudici ultraconservatori Alito e Scalia hanno votato contro (quest’ultimo ha definito «insensata» la decisione dei suoi colleghi), ma sono stati battuti dai 4 giudici democratici ai quali si sono uniti Roberts e anche un altro magistrato conservatore, Anthony Kennedy. Festa grande per Obama: «È un buon giorno per l’America: questa è la sua nuova sanità e finalmente, dopo tante dispute, i cittadini potranno essere informati correttamente sui suoi benefici».
Massimo Gaggi – Il Corriere della Sera – 26 giugno 2015