Lo Stato azionista si prepara ad archiviare il 2017 con una buona notizia (in Borsa quest’anno ha guadagnato 4,6 miliardi) e una cattiva: il bilancio a lungo termine delle privatizzazioni è un mezzo flop. Se il Tesoro avesse tenuto in portafoglio tutte le principali aziende che ha collocato a Piazza Affari oggi si troverebbe in tasca – tra rivalutazioni delle partecipazioni e dividendi-extra – oltre 40 miliardi in più.
L’esercizio, ovviamente, è puramente teorico. Le cessioni di quote di aziende pubbliche a cavallo del millennio – specie quelle delle banche e dell’Eni sono state la chiave per agganciare la locomotiva dell’Europa, con vantaggi economici inquantificabili per l’Italia. Non solo. Il processo di privatizzazione – come ha riconosciuto la Corte dei conti nel 2010 – «ha raggiunto gli obiettivi a lungo termine generando valore nelle ex-imprese statali, contribuendo a risanare le finanze pubbliche, a sviluppare il sistema finanziario e ad ammodernare lo Stato».
Passando ai raggi X i risultati delle ultime grandi partecipazioni del Tesoro ancora quotate in Borsa però, il bilancio “numerico” complessivo lascia lo stesso un retrogusto amaro. Prendiamo l’Eni, la madre di tutte quelle dismissioni statali che tra il 1993 e il 2005 hanno trasferito dal pubblico al privato beni pari al 10,8% del Pil. Il ministero dell’Economia e delle Finanze ha collocato a Piazza Affari tra il 1995 e il 2001 la maggioranza del capitale del cane a sei zampe, incassando (al netto della partita di giro successiva con la Cdp) circa 24 miliardi di euro. Un tesoretto che rivalutato con i parametri Istat corrisponde a 34 miliardi attuali. La partecipazione in mano ai privati ne vale invece oggi 36, come dire che se lo Stato avesse tenuto il 100% dell’azienda, avrebbe in tasca – teoricamente – 2 miliardi in più. I dati di oggi sono comunque meglio del “mancato guadagno” di diverse decine di miliardi raggiunto nel 2007 quando la capitalizzazione dell’Eni a Piazza Affari spinta dal boom del petrolio oltre i 100 dollari al barile – aveva raggiunto i 100 miliardi, quasi il doppio di oggi.
Il vero buco aperto nelle casse dello Stato dalla vendita del 70% del gigante degli idrocarburi è quello dei dividendi finiti nelle tasche dei privati invece che in quelle dell’azionista pubblico. Una montagna d’oro pari a circa 22 miliardi dal 2001 ad oggi, complice la generosità con cui l’Eni ha sempre distribuito buona parte dei suoi profitti ai soci, compreso ovviamente quello pubblico.
Lo stesso schema è andato in onda sul fronte Enel, messa sul mercato in rate tra il 1999 e il 2004. La corsa del titolo nel 2017 (+29% circa da inizio anno) ha regalato in poco più di dieci mesi allo Stato una rivalutazione della sua partecipazione del 23,58% pari 2,9 miliardi. Come dire una mezza manovra finanziaria e un guadagno da 9 milioni al giorno, non proprio da buttar via. Unico dispiacere: se il Tesoro avesse tenuto in tasca il 100%, oggi avrebbe in tasca un valore superiore di 2 miliardi alla somma tra quello della quota residua e gli incassi, inflazione compresa, delle privatizzazioni. Noccioline, però, a confronto ai miliardi (poco meno di 20) di cedole andate negli ultimi anni a premiare gli azionisti privati e sfuggiti alle casse pubbliche. Il bilancio è molto meno doloroso se si guarda ad altre privatizzazioni come Finmeccanica e Poste. In questi casi il collocamento in Borsa si è rivelato un successo per lo Stato (un po’ meno invece per i soci privati) visto che le somme incassate cedendo le azioni – rivalutate con indice dell’inflazione fissato dall’Istat – sono superiori ai valori attuali di quelle quote. Pure qui però i mancati dividendi riequilibrano il risultato finale segnando un sostanziale pareggio tra i benefici per gli investitori privati e quelli per la controparte pubblica.
La Cuccagna per i privati nella grande partita delle privatizzazioni ha però una spiegazione che va oltre i numeri: le dismissioni dello Stato sono state e restano uno dei capisaldi del risanamento delle finanze nazionali. E l’appeal di un adeguato ritorno è fondamentale per attirare anche i compratori del futuro: il Documento economico finanziario (Def) 2017-2020 prevede altre cessioni per 3,5 miliardi quest’anno e poi 5 miliardi all’anno fino al 2020. E come in ogni negozio che si rispetti, i clienti arrivano a comprare solo se sono convinti di fare un affare.
Repubblica – 8 novembre 2017