Il Veneto fa le pulci alla legge di riforma della Pa e ricorre alla Corte costituzionale, che accoglie parzialmente i rilievi e,?ieri, depositata la sentenza, il risultato è lo stop alla legge Madia sulla pubblica amministrazione. I giudici chiariscono che per le materie oggetto dei rilievi (tra cui la sanità) serve l’intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni per procedere con i decreti attuativi della riforma, non basta cioè il parere consultivo della Conferenza delle Regioni come previsto dalla legge Madia. La sentenza della Consulta, depositata ieri (n. 251/2016), interviene a giudicare la legittimità costituzionale di alcune norme della legge di riforma delle amministrazioni pubbliche (legge Madia n. 124/2015), su ricorso della Regione Veneto, facendo saltare i decreti attuativi della Riforma Pa approvati ieri dal Cdm. Sotto esame le norme su cittadinanza digitale, dirigenza pubblica, lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, partecipazioni azionarie delle amministrazioni pubbliche, servizi pubblici locali di interesse economico generale.
Ma per la sanità il punto focale è rappresentato dalle norme sulle nomine dei manager delle aziende sanitarie e ospedali e la creazione dell’albo unico nazionale dei dg.
La riforma Madia parte con la legge delega 124 del 7 agosto 2015 che prevede una serie di decreti legislativi del governo per la sua attuazione. La Regione Veneto, guidata dal leghista Luca Zaia, ha impugnato nell’ottobre del 2015 la legge 124 davanti alla Corte costituzionale, accusandola di non rispettare il Titolo V che richiede su una serie di materie la legislazione concorrente tra Stato e Regioni. La delega infatti prevede che sui decreti attuativi del governo le Regioni diano solo un parere non vincolante. Alla fine, quindi, l’ultima parola è del governo. La Corte ha respinto i dubbi di legittimità costituzionale sollevati dal Veneto in materia di Codice dell’amministrazione digitale, perché materia riservata allo Stato, ma ha dichiarato l’incostituzionalità della legge delega negli articoli che riguardano altre materie, molto importanti, laddove la 124 prevede appunto che i decreti attuativi siano adottati dal governo sulla base di un «semplice parere, non idoneo a realizzare un confronto autentico con le autonomie regionali», anziché un «intesa» vera e propria, dice la sentenza. Le materie in questione sono quattro: 1) il «lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni», e quindi il decreto sui licenziamenti (i furbetti del cartellino) entrato in vigore a luglio, oltre che il testo unico sul pubblico impiego, il cui decreto non è stato però ancora emanato; 2) le società partecipate, il cui decreto è anche questo già in vigore; 3) la riforma della dirigenza; 4) i servizi pubblici locali. Per queste ultime due materie i decreti sono stati approvati in Consiglio dei ministri appena l’altro ieri.
Il problema è risolvibile per il testo unico sul pubblico impiego perché qui il governo potrà appunto ricercare l’intesa richiesta dalla Consulta nella Conferenza Stato-Regioni, prima di emanare il decreto. La situazione comincia invece a complicarsi sul decreto partecipate e su quello dei furbetti del cartellino, dove per evitare che essi siano impugnati e dichiarati incostituzionali, il governo dovrà firmare un’intesa con le Regioni da tradurre in un nuovi decreti, correttivi dei precedenti.
Più difficile, infine, il problema degli ultimi due decreti (dirigenza e servizi locali) passati in Consiglio dei ministri giovedì. Madia dovrebbe chiudere una formale intesa nella Conferenza Stato-Regioni sui decreti prima della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. Operazione che appare impossibile. Si tenterebbe allora un’altra strada: pubblicare in Gazzetta prima i decreti e poi la sentenza. A quel punto i decreti potrebbero essere corretti in un secondo momento, previa intesa con le Regioni. Se invece fosse pubblicata prima la sentenza, sarebbe impossibile non tenerne conto e i decreti non vedrebbero più la luce perché la delega al governo scade domani.
Comunque vada, la sorte della riforma, almeno sulla dirigenza, appare segnata. Zaia esulta, mentre i 5 Stelle attaccano Renzi: «Svela il suo volto e arrogante. Vuole forse abrogare la Consulta?». No, dicono da Palazzo Chigi, le critiche sono rivolte a chi ha impugnato la riforma. Ma la sentenza ha riacceso lo scontro sul referendum. «Le sentenze si rispettano — dice Madia — ma se votiamo sì non ci sarà più la possibilità che una Regione blocchi il Paese». Intanto il settimanale Economist si divide e dopo l’editoriale per il No difende con un pezzo del corrispondente da Roma le ragioni del Sì. E Berlusconi dice che Renzi potrà governare anche se vincesse il No. (Enrico Marro – IL Corriere della Sera)
Sonora bocciatura delle legge Madia. Le motivazioni della sentenza
La parola d’ordine è «leale collaborazione». Che va declinata come «intesa» tra Stato e Regioni – e non semplicemente come «parere» richiesto alle seconde – nelle materie in cui vi è una «competenza concorrente», statale e regionale: riorganizzazione della dirigenza pubblica, lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, partecipazioni azionarie della Pa, servizi pubblici locali di interesse economico generale. Lo scrive la Corte costituzionale nella sentenza n. 251/2016 depositata ieri (relatrice Silvana Sciarra): una sonora bocciatura della legge Madia di riforma della Pubblica amministrazione (n. 124/2015) che di quella «leale collaborazione» non si è fatta carico, pur essendo un principio fondamentale della Costituzione. Un parere, infatti, non è un’intesa e quindi non è, spiega la Consulta, uno strumento adeguato di coinvolgimento delle Regioni (e degli enti locali), a difesa delle loro competenze, spesso intrecciate a quelle statali.
Scambiare l’uno per l’altra è un errore da matita blu. L’intesa è un metodo di lavoro inclusivo, e il «luogo» idoneo a realizzarla è la Conferenza Stato-Regioni o la Conferenza unificata. Di qui l’incostituzionalità delle norme della legge Madia là dove, pur incidendo su materie di competenza sia statale che regionale, prevedono che i decreti attuativi siano adottati sulla base di una forma di raccordo con le Regioni che non è l’intesa ma il semplice parere, «non idoneo a realizzare un confronto autentico con le autonomie regionali». E non idonea è anche la sede – la Conferenza unificata – individuata dalle norme impugnate sulla dirigenza pubblica in luogo di quella propria, cioè la Conferenza Stato-Regioni. Stesso discorso per le norme (anch’esse incostituzionali) sul riordino della disciplina vigente del lavoro alle dipendenze della Pa: anche in tal caso sono in gioco interessi che coinvolgono lo Stato e le Regioni, mentre in sede di Conferenza unificata sono coinvolti anche gli interessi degli enti locali.
La sentenza, pur nel solco della precedente giurisprudenza, dà un’interpretazione evolutiva del principio di «leale collaborazione» perché considera l’intesa Stato-Regioni un passaggio procedurale necessario anche quando la normativa statale dev’essere attuata con decreti legislativi delegati, adottati dal governo in base all’articolo 76 della Costituzione. Decreti che secondo la Corte non possono sottrarsi alla procedura concertativa, «proprio per garantire il pieno rispetto del riparto costituzionale delle competenze».
La sentenza tocca solo le disposizioni di delega specificamente impugnate dalla Regione Veneto, lasciando fuori le norme attuative; e l’illegittimità le colpisce soltanto «nella parte in cui prevedono che i decreti legislativi siano adottati previo parere e non previa intesa». Dunque, i decreti sono di fatto incostituzionali e perciò impugnabili, anche se il governo avrebbe potuto giocare d’anticipo utilizzando i già previsti decreti correttivi, previa convocazione della Conferenza Stato-Regioni per realizzare l’intesa. La Consulta, per rispetto istituzionale, non indica al governo le strade per ripristinare la «leale collaborazione». Ma la bacchettata politica è forte e sta nel richiamo ad attuare le proprie norme di delega seguendo, come “metodo di lavoro”, quello dell’intesa, basata sulla «reiterazione delle trattative per raggiungere un esito consensuale», nella sede della Conferenza Stato-Regioni o della Conferenza unificata, a seconda che siano in discussione solo interessi e competenze statali e regionali o anche degli enti locali. Un richiamo pesante, anche se non l’unico nel lungo e travagliato iter legislativo di una riforma che, a questo punto, forse è davvero meglio riscrivere tenendo conto delle numerose critiche espresse, in sede parlamentare e di Consiglio di Stato. Fino alla Corte costituzionale. (Donatella Stasio – IL Sole 24 Ore)
26 novembre 2016