Contrordine. Negli uffici pubblici l’articolo 18 rimane quello scritto nel 1970, e la legge Fornero del 2012 (così come il Jobs Act del 2014) restano confinati al mondo privato. Lo ha stabilito la Cassazione nella sentenza 11868/2016 depositata ieri dalla sezione lavoro, analizzando il caso di un dipendente del ministero delle Infrastrutture che risultava in servizio negli stessi giorni sia a Roma sia a Bussolengo, una quindicina di chilometri a ovest di Verona, senza traccia di viaggi aerei. La decisione, che ha comunque confermato il licenziamento perché i fatti erano provati, si dilunga però sull’articolo 18 e va in senso contrario a quanto la stessa sezione aveva scritto a novembre nella sentenza 24157 del 2015. In quell’occasione, con una decisione innovativa che aveva fatto discutere, i giudici avevano aperto le porte della pubblica amministrazione alla riforma Fornero, che in pratica limita la reintegra ai casi di «manifesta insussistenza» delle ragioni alla base del licenziamento.
Con un ragionamento che avrebbe potuto portare anche all’applicazione delle «tutele crescenti» previste dal Jobs Act per gli assunti dal 7 marzo del 2014. A dividere i giudici (solo uno dei cinque componenti del collegio è stato della partita in entrambe le occasioni) è il frutto di un intrico normativo figlio dei tanti tira e molla che hanno accompagnato un tema a così alta sensibilità politica. Il testo unico del pubblico impiego scritto nel decreto legislativo 165 del 2001 spiega, all’articolo 51, che ai dipendenti pubblici «contrattualizzati» (cioè tutti tranne professori universitari, magistrati e militari) si applica lo Statuto dei lavoratori con le sue «successive modificazioni ed integrazioni». Dal canto suo la riforma Fornero (legge 92/2012) riscrive i meccanismi di tutela per i licenziamenti economici e sottolinea che le novità «costituiscono principi e criteri per la regolazione dei rapporti di lavoro» negli uffici pubblici. Tocca però al ministro per la Pa e l’Innovazione il compito di definire «ambiti, modalità e tempi dell’armonizzazione»: ma né il governo Monti né quello successivo guidato da Letta si sono avventurati su questo terreno, e con Renzi è intervenuta la riforma Madia che nelle prossime settimane dovrebbe ridefinire la questione nel nuovo decreto sui lavoratori pubblici.
In questa architettura normativa incerta, hanno trovato argomenti sia i sostenitori delle evoluzioni dell’articolo 18 anche negli uffici pubblici sia i fautori della sua immutabilità nella versione del 1970. Nella sentenza di novembre, che aveva lanciato la prima ipotesi, i giudici avevano sottolineato gli adeguamenti “automatici” del testo unico del pubblico impiego alle riforme dello Statuto dei lavoratori, mentre nella decisione di ieri l’accento è andato sul fatto che le regole attuative previste per l’estensione della riforma Fornero alla Pa non sono state scritte.
Fin qui la discussione da giuristi, che lascerebbe tuttavia incerta la sorte delle «tutele crescenti» nel pubblico impiego perché il rinvio alle norme attuative era previsto nella legge Fornero (articolo 1, comma 8)?ma non nel Jobs Act;?la stessa Cassazione, peraltro, sottolinea l’immediata applicazione al pubblico impiego di altre regole che non contemplavano un ulteriore passaggio attuativo, come il rito Fornero per l’impugnazione del licenziamento.
La sentenza depositata ieri dalla suprema corte non trascura però questioni più sostanziali. Secondo i giudici, la legge Fornero nelle sue finalità «tiene conto unicamente delle esigenze proprie dell’impresa privata», e di conseguenza la riformulazione dell’articolo 18 «introduce una modulazione delle sanzioni pensate in relazione al solo lavoro privato». Una revisione delle tutele richiederebbe per i giudici «una ponderazione diversa degli interessi», perché?nelle aziende private c’è da difendere solo il singolo lavoratore mentre nell’amministrazione pubblica bisogna pensare alla «protezione di più generali interessi collettivi». I?sindacati ovviamente esultano, a partire dalla segretaria generale della Cgil secondo cui «la sentenza della Cassazione dimostra che le istituzioni continuano a funzionare», mentre i giuslavoristi parlano di «disuguaglianza insostenibile fra pubblico e privato».
Funzione pubblica «in linea» con i giudici
Anche l’interpretazione ministeriale considera «speciale» il lavoro pubblico rispetto a quello privato
La discussione infinita sull’applicabilità alla pubblica amministrazione delle riforme realizzate in questi anni sull’articolo 18 nasce dal fatto che finora tutti gli interventi sul punto sono stati circondati da polemiche e hanno prodotto soluzioni ispirate più al compromesso che alla chiarezza. L’ultima parola dovrebbe arrivare nelle prossime settimane dal nuovo testo unico del pubblico impiego, cioè dal decreto attuativo della delega Pa chiamato a riscrivere le regole per i dipendenti di Stato, regioni ed enti locali.
L’indirizzo della Funzione pubblica è lo stesso seguito dalla Cassazione nella sentenza di ieri, e punta a sottolineare la «specialità» del rapporto di lavoro pubblico che escluderebbe l’allineamento al mondo privato sul piano delle tutele per i licenziamenti. Il ragionamento di Palazzo Vidoni poggia su tre premesse, che distinguono gli impieghi pubblici da quelli privati: l’ingresso è per concorso, i soldi sono pubblici e gli interessi da tutelare riguardano il «buon andamento» e l’«imparzialità» dell’amministrazione pubblica, previsti dall’articolo 97 della Costituzione, e non solo la sorte individuale del singolo dipendente.
Questa impostazione, che escluderebbe in simultanea dagli uffici pubblici sia la riforma Fornero sia il Jobs Act, corre molto vicino a quella proposta ieri dalla Cassazione, ed è confermata dal ministro del Lavoro Giuliano Poletti secondo il quale «il governo ha sempre detto che le regole del jobs act si applicano solo ai privati e non al pubblico impiego». Nel governo e nella maggioranza ci sono però anche posizioni diverse. Il viceministro dell’Economia Enrico Zanetti, per esempio, si era detto molto più in linea con la precedente posizione della Cassazione, quella che aveva acceso il semaforo verde alla riforma Fornero nella pubblica amministrazione sulla base del rinvio «automatico» alle evoluzioni dello Statuto dei lavoratori scritto nel testo unico del pubblico impiego ancora in vigore. In quell’occasione, Zanetti aveva parlato di «errore tecnico e politico» da parte di chi sostiene la differenza di regole tra uffici pubblici e privati, e analoga è l’opinione di Pietro Ichino: «Le tutele crescenti nella pubblica amministrazione – ha sottolineato ancora ieri il giuslavorista e senatore Pd – sarebbero un grande passo avanti per i precari che lavorano a volte da anni negli enti, e che non riescono ad arrivare a un impiego stabile perché le amministrazioni non hanno la certezza di poter garantire nel tempo la provvista finanziaria che serve a pagarli».
La discussione insomma resta aperta, anche all’interno del governo e dello stesso partito democratico, e sembra destinata a riaccendersi a breve. La riforma del pubblico impiego, che corre parallela a quella dei dirigenti con l’introduzione del ruolo unico e degli incarichi a tempo, è in vista del traguardo ed è attesa nelle prossime settimane.
Sul piano degli effetti concreti, poi, il quadro è ancora più articolato, come mostrano le storie individuali alla base delle due sentenze opposte della Cassazione: quella di fine novembre, che sosteneva l’applicabilità della riforma Fornero alla Pa, ha salvato però il posto di lavoro del dipendente mentre la decisione di ieri, pur ribadendo che negli uffici pubblici l’articolo 18 rimane quello originale, ha confermato il licenziamento.
Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore – 10 giugno 2016