La valorizzazione delle risorse è un obiettivo prioritario della Ue, sia per i vantaggi ambientali derivanti da un più efficiente impiego delle materie prime, sia per quelli economici in favore dell’industria manifatturiera. Nel 2011, la Commissione Ue, nella tabella di marcia «verso un’Europa efficiente nell’impiego delle risorse» (COM/2011/ 571), ha dato grande rilievo alla prevenzione nella produzione di rifiuti.
Sulla base di queste premesse, il cittadino si aspetterebbe un contesto normativo che assecondi le finalità comunitarie e un corrispondente orientamento giurisprudenziale, rivolti a potenziare la nozione comunitaria di “sottoprodotto” recepita con l’articolo 184-bis del Testo unico ambientale. Essa rappresenta indubbiamente uno dei più efficaci strumenti di “prevenzione” e acquisizione di risorse aggiuntive.
Le condizioni
Il sottoprodotto, per essere tale, deve soddisfare quattro condizioni:
– essere parte integrante del processo;
– il suo utilizzo deve essere certo;
– l’impiego dovrà essere «diretto … senza alcun ulteriore trattamento diverso della normale pratica industriale»;
– l’impiego deve essere “legale”, nel rispetto cioè dei requisiti che la legge richiede ai prodotti.
A fronte della possibilità di qualificare il residuo produttivo come “prodotto” e non come rifiuto, l’atteggiamento prevalente della Cassazione è stato guardingo, volto a dare alla norma un’interpretazione restrittiva e sostanzialmente “punitiva”, con il dichiarato intento di «… rispondere ai criteri generali a tutela dell’ambiente cui si ispira la disciplina in tema di rifiuti …» (secondo l’emblematica pronuncia di Cassazione n. 17453/12). La Corte legge, infatti, la nuova disposizione come «norma avente natura eccezionale e derogatoria rispetto alla disciplina ordinaria dei rifiuti», sicché l’onere della prova sulla sussistenza del residuo-sottoprodotto grava «su colui che ne richiede l’applicazione», e individua le condizioni elencate in termini talmente limitativi, da “abrogare” di fatto l’articolo 184-bis.
Appare però concettualmente fuorviante considerare le disposizioni sul sottoprodotto come eccezionali e in deroga rispetto a quelle relative al rifiuto, perché si tratta di due nozioni autonome oltre che incompatibili fra loro. Esse coesistono in termini di alternatività, con potenziale prevalenza e preferenza del legislatore comunitario per il “sottoprodotto”. Ne deriva che l’obiettivo di un elevato livello di protezione ambientale, imposto dall’articolo 174 del Trattato, non conduce affatto a un’interpretazione estensiva della categoria del rifiuto ma, all’opposto, a quella del residuo utilizzabile come sottoprodotto.
Entrando nel merito delle quattro condizioni e limitandoci a considerare quella che ammette sui residui solo i trattamenti rientranti nella normale pratica industriale la Commissione Ue, sin dalla Comunicazione del 2007 e, da ultimo, nel 2012 nella «Guidance on the interpretation of key provisions of Directive 2008/98» ha precisato che sono consentiti quegli interventi che «nella catena del valore del sottoprodotto» risultano «necessari per poter rendere il materiale riutilizzabile». La Commissione esemplifica così: il sottoprodotto «… può essere lavato, seccato, raffinato od omogeneizzato», nonché «… dotato di caratteristiche particolari» con l’aggiunta di «… altre sostanze necessarie al riutilizzo…». La Cassazione, invece, equiparando erroneamente i “trattamenti” sul sottoprodotto e quelli sui rifiuti, nella sentenza n. 17453, ricorre, per quelli vietati, all’elencazione ricavabile dal decreto legislativo 36/03, relativo alle discariche di rifiuti, che considera trattamento tutti «… i processi fisici, chimici, termici o biologici, incluse le operazioni di cernita…» compiute sul rifiuto.
Una soluzione forzata
Ma la soluzione appare forzata e fuorviante, tanto è vero che la disciplina delle discariche individua i trattamenti sui rifiuti spesso mutuandoli proprio dalla normale pratica industriale. Neppure si può ragionevolmente immaginare che la soluzione possa giungere dai decreti ministeriali che, in base all’articolo 184-bis, comma 2 del Testo unico, potrebbero definire, per singole tipologie di materiali, quali siano i trattamenti ammessi. Troppo spesso si trascura il fatto che, di regola, per ogni prodotto c’è almeno un sottoprodotto e che i casi da valutare sarebbero migliaia. Nel frattempo, ove l’approccio della Corte non mutasse, gli operatori interessati a intraprendere un percorso virtuoso di utilizzo dei sottoprodotti si scontrerebbero con una giurisprudenza ostile che, insensibile alle rilevate aperture Ue, insiste su una nozione di rifiuto superata e totalizzante, confondendo la prevenzione con il preconcetto ed erodendo paradossalmente i faticosi tentativi di espansione del mercato del sottoprodotto.
Il Sole 24 Ore – 30 luglio 2013