La Corte di Cassazione con la sentenza n. 40320 del 7 ottobre 2015 affronta la delicata questione della rilevanza penale del mobbing in una particolare fattispecie concernente i rapporti tra medici che operavano nella stessa unità operativa. Il mobbing, come è noto, consiste in un comportamento vessatorio e discriminatorio, preordinato a mortificare e a isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro. La questione qui affrontata dalla Cassazione riguarda l’eventuale rilevanza penale di tale comportamento a titolo di maltrattamenti in famiglia (articolo 572 del Cp ): se cioè tale reato possa essere configurato dopo le modifiche ampliative della norma operate dalla legge 1° ottobre 2012 n. 172, di ratifica della convenzione di Lanzarote del 25 ottobre 2007, con la quale, in particolare, come risulta palese dalla modifica della rubrica, il reato di maltrattamenti è stato esteso anche ai fatti commessi in danno dei “conviventi”.
Per il giudice di legittimità il reato di maltrattamenti può essere ravvisato solo a determinate condizioni: è necessario che le pratiche persecutorie e maltrattanti del datore di lavoro in danno del dipendente, ovvero, in ambito di rapporti professionali, del superiore nei confronti del sottoposto, è indispensabile che il rapporto interpersonale sia caratterizzato dal tratto della “para-familiarità”, che si caratterizza per la sottoposizione di una persona all’autorità di un’altra in un contesto di prossimità permanente, di abitudini di vita (anche lavorativa) proprie e comuni alle comunità familiari, non ultimo per l’affidamento, la fiducia e le aspettative del sottoposto rispetto all’azione di chi ha ed esercita su di lui l’autorità con modalità tipiche del rapporto familiare, caratterizzate da ampia discrezionalità ed informalità.
Nel caso di rapporti di lavoro tra professionisti
Tale situazione, ha osservato la Corte, ben può configurarsi anche nel caso di rapporti di lavoro tra professionisti di elevata qualificazione: conseguentemente, è stata annullata con rinvio la sentenza di non luogo a procedere per il reato di cui all’articolo 572 del Cp , contestato al direttore di una unità operativa di cardiochirurgia ospedaliera cui era stato addebitato di avere posto in essere iniziative discriminatorie tendenti al demansionamento di fatto di un proprio sottoposto, dirigente medico, il quale, nel tempo, era stato destinato a un’attività di consulenza in una struttura diversa e meno importante delle precedenti, era stato escluso dalla funzione di primo chirurgo reperibile a vantaggio di colleghi con minore anzianità di servizio e, soprattutto, si era visto esautorare dall’attività di primo chirurgo, con conseguente compromissione del mantenimento delle proprie capacità operatorie, dipendenti anche dalla statistica – numero e qualità- degli interventi svolti.
Il mobbing lavorativo ha particolari caratteristiche
L’affermazione della Cassazione autorizza allora la conclusione che, per converso, il reato di maltrattamenti non sarebbe configurabile, anche in presenza di un chiaro fenomeno di mobbing lavorativo, laddove non siano riconoscibili quelle particolari caratteristiche: ad esempio, se la vicenda si sia verificata nell’ambito di un realtà aziendale sufficientemente articolata e complessa, in cui non è ravvisabile quella stretta e intensa relazione diretta tra datore di lavoro e dipendente, che determina una comunanza di vita assimilabile a quella del consorzio familiare.
Gli orientamenti precedenti
In linea con questa precisazione, in precedenza, la Cassazione ha così escluso il reato, in una fattispecie in cui le condotte incriminate erano state tenute all’interno di un’azienda di grandi dimensioni, caratterizzata dalla presenza di numerosi dipendenti: ergo, in un contesto in cui era non ipotizzabile il suddetto rapporto “para-familiare” (sezione VI, 5 marzo 2014, B. e altro).
In termini, ancora, sezione VI, 28 marzo 2013, parte civile in prc. S. e altro; nonché, sezione VI, 6 febbraio 2009, Proc. gen. App. Torino in proc. P. e altro, la quale ha così rigettato il ricorso del procuratore generale avverso la sentenza che aveva mandato assolto dal reato di maltrattamenti il direttore generale di una società, che si assumeva avere sottoposto una dipendente a sistematici comportamenti ostili, umilianti, ridicolizzanti e lesivi della dignità personale, tanto da averle procuratore lesioni gravi e gravissime, soprattutto a livello psichico: al riguardo, ha motivato il giudice di legittimità, pur se il comportamento contestato poteva inquadrarsi nella surrichiamata nozione di mobbing, non poteva tuttavia ravvisarsi il reato di maltrattamenti, astrattamente estensibile pure ai descritti rapporti “para-familiari”, giacché un rapporto di tal genere non era ravvisabile nella vicenda in esame, considerato che la dipendente vittima della condotta incriminata era inserita in una “realtà aziendale complessa” (centinaia di dipendenti), la cui articolata organizzazione (caratterizzata dalla presenza di “quadri intermedi”) non implicava una stretta e intensa relazione diretta tra datore di lavoro e dipendente, sì da determinare una comunanza di vita assimilabile a quella caratterizzante il consorzio familiare, ma anzi finiva con il marginalizzare inevitabilmente i rapporti intersoggettivi.
Il Sole 24 Ore sanità – 9 novembre 2015