di Michele Ainis*. In un sistema con 40 mila leggi e 80 mila regolamenti viviamo nell’insicurezza, e il diritto genera l’arbitrio, non giustizia. L’apparato è lento e oscuro e coltiva un potere dispotico e indomabile, che è la prima fonte di malaffare nel Paese. A Milano il vicepresidente della Regione, Mario Mantovani, è stato arrestato per tangenti mentre era atteso alla Giornata della Trasparenza. A Palermo Roberto Helg, paladino della lotta al racket, ha ricevuto una condanna per estorsione aggravata. A Bari il pm Donato Ceglie, icona della lotta alle ecomafie, è stato sospeso dal Csm per i suoi rapporti con i clan. A Napoli giravano bustarelle nei concorsi per entrare alla Guardia di finanza. Mentre a Roma l’inchiesta su Mafia Capitale non ha cambiato d’una virgola il copione: tangenti sugli appalti dell’Anas, sui condoni urbanistici rilasciati dal Comune, perfino sulle sentenze delle Commissioni tributarie, che dovrebbero punire la corruzione fiscale. Smantelliamo tutto, verrebbe da esclamare.
Se l’anticorruzione alleva il germe della corruzione, forse per venirne a capo dovremmo liberarci di sceriffi e tribunali, convegni e cerimonie. Magari fosse così semplice. Anche se il peccato degli angeli, di chi aveva giurato di proteggerci sotto le sue ali piumate, viene sempre da Lucifero, reca l’impronta del demonio. Perché sparge attorno a sé un veleno, e quel veleno corrompe la fiducia nelle istituzioni, prima ancora di corrompere gli animi, d’infiacchire le coscienze.
Ne sanno qualcosa pure in Vaticano, dove papa Francesco s’è visto costretto a correggere le norme sui processi di beatificazione e canonizzazione: troppe pratiche truccate.
Ma trucchi e raggiri si moltiplicano fuori dalle Mura leonine, come una pioggia acida che bagna lo Stivale. Così, in Piemonte la Corte dei conti ha appena denunziato il caso di un’addetta del 118, che tardava a chiamare l’ambulanza dovendo prima avvertire una società di carro attrezzi, dalla quale incassava percentuali per ogni segnalazione. A Messina 23 consiglieri comunali su 40 hanno imbastito una truffa sui gettoni di presenza. A Macerata s’aprirà un processo per corruzione attorno ai chioschi del cimitero. Insomma, nemmeno i morti possono restare immacolati.
D’altronde in Italia un appalto su tre viene assegnato in modo irregolare, dichiara la Guardia di finanza nel suo ultimo rapporto. Per Transparency International siamo penultimi in Europa (solo la Bulgaria sta peggio) nella classifica dei brogli. E la corruzione affonda la nostra economia, come ha osservato Sergio Rizzo sul Corriere (12 marzo).
La domanda è: ma quale linfa nutre il malaffare? Per rispondere, dobbiamo esaminare le risposte dettate fino ad oggi, giacché evidentemente si sono rivelate fallaci. Una su tutte: l’inasprimento delle pene. Nel 2012 la legge numero 190 ha ridisegnato il quadro delle misure repressive, introducendo nuove fattispecie di reato. Nel 2015 la legge numero 69 è andata ancora oltre, contemplando 10 o anche 20 anni di carcere per i corrotti.
Potremmo spingerci fino alla pena dell’ergastolo, potremmo stabilire la lapidazione in piazza, ma non è questa la cura.
Nessuna cura sarà mai efficace se si limita ad asportare la pustola infetta, senza aggredire l’organismo che propaga l’infezione. Quell’organismo è il nostro ordinamento normativo, costellato da 40 mila leggi e 80 mila regolamenti, da una folla di regolette e codicilli che spesso si contraddicono a vicenda. Sgorga da qui l’insicurezza che accompagna i nostri passi quotidiani, ed è l’incertezza del diritto a generare l’arbitrio delle burocrazie, ed è questo potere dispotico e indomabile la prima fonte della corruzione.
Corruptissima republica, plurimae leges , diceva Tacito. Perché il troppo diritto offusca la cultura dei diritti, convertendoli in favori, chiesti e ricevuti in cambio di qualche banconota. È esattamente questo il ruolo del corrotto: nella maggioranza dei casi, lui è un facilitatore, t’aiuta a esercitare i tuoi diritti, che altrimenti resterebbero infecondi.
Ma il facilitatore, nel suo turpe mestiere, viene facilitato a propria volta dalla solitudine in cui siamo stati risucchiati, dalla crisi dei corpi intermedi (partiti, sindacati) che una volta ci venivano in soccorso, dall’allentamento dei vincoli comunitari, del senso d’appartenenza a un popolo, a un destino collettivo.
Sicché è questa solitudine che adesso si tratta di curare. Restaurando un clima, un ambiente legale e morale in cui ciascuno possa incamminarsi senza temere un’imboscata. Ma per riuscirci serve una legge in meno, non una legge in più.
* Università Roma 3– Corriere della Sera – 15 marzo 2016