Non sarà una discussione semplice quella che avverrà nella camera di consiglio di domani al palazzo della Consulta tra i giudici costituzionali che devono decidere il destino del referendum sull’articolo 18 dello statuto dei lavoratori e il cosiddetto Jobs act. Per la questione di diritto che dev’essere affrontata — può una consultazione abrogativa trasformarsi surrettiziamente in propositiva attraverso la manipolazione della legge sottoposta al giudizio del popolo? — e per le manovre politiche che, fuori dal palazzo, sono collegate alla sentenza tanto attesa.
Alla Corte interessa esclusivamente il primo profilo, che peraltro costituirà un precedente importante per il futuro dello strumento referendario. Ma nelle altre sedi istituzionali e di partito (in particolare quella del Pd) si stanno mettendo a punto strategie che dipendono anche dall’esito della decisione tecnica. Ciò che finora si diceva sottovoce in Parlamento e a Largo del Nazareno, sta emergendo in maniera esplicita: Matteo Renzi gradirebbe che la Corte costituzionale dichiarasse ammissibile il quesito promosso dalla Cgil. Non certo per correre il rischio di vedere cancellata la sua riforma del mercato del lavoro, bensì per avere un ulteriore strumento di pressione verso quel che sembra essere il suo unico obiettivo: andare al più presto a elezioni anticipate. Se si votasse entro l’estate, infatti, il referendum slitterebbe all’anno prossimo
Naturalmente la road map di Renzi è e resterebbe piena di incognite, una delle quali passa anche dall’altro verdetto che la Consulta si appresta a emettere sulla riforma elettorale (voluta sempre dall’ex premier). Ma il via libera alla consultazione popolare sul Jobs act sarebbe, in questo disegno, un passo in avanti. Di fronte all’eventualità di mettere a rischio la novità più significativa della legislatura, valutata favorevolmente pure in Europa dove l’Italia è sempre sotto esame, anche i più decisi avversari di un ritorno affrettato alle urne vacillerebbero. Lo stesso presidente della Repubblica, chiarissimo sull’esigenza di avere prima leggi omogenee per eleggere Camera e Senato, risolto in qualche modo quel problema potrebbe convenire sulla necessità di evitare il referendum.
I giudici costituzionali sono estranei a questi ragionamenti quasi machiavellici; tuttavia resta da vedere se e quanto certe aspettative possano influire su singole posizioni. Indipendentemente dalle indiscrezioni (non confermate né confermabili) sul pressing in atto nei confronti alcuni componenti della Corte, da parte di ministri in carica più o meno renziani. Anche perché, nel merito, la questione resta aperta. Gran parte della discussione ruoterà intorno alla sentenza del 2003 che dichiarò ammissibile il referendum sull’abolizione completa dell’articolo 18. In quel caso, qualora avessero vinto i Sì, il diritto al reintegro dopo un licenziamento illegittimo si sarebbe esteso a tutti i lavoratori, senza più la differenziazione tra aziende con più o meno di 15 dipendenti. Stavolta invece, attraverso un minuzioso ritaglio delle parole che compongono il testo della legge, il limite per il reintegro passerebbe da 15 a 5 dipendenti. È legittima una simile manipolazione che di fatto fa riscrivere la norma al corpo elettorale anziché in Parlamento?
Chi pensa di sì richiama il precedente del 2003, e ritiene che quando si tratta di decidere di dare la parola al popolo bisogna essere più flessibili nell’interpretazione delle limitazioni imposte dalla Costituzione. Chi invece sostiene l’inammissibilità del quesito, paventa il rischio di un referendum propositivo, seppure in forma mascherata; formula introdotta dalla riforma costituzionale di Renzi, bocciata proprio dal voto popolare.
Il Corriere della Sera – 10 gennaio 2017