Più flessibilità nell’utilizzo dei contratti di solidarietà. Ricorso al contratto di ricollocazione come strumento di politica attiva del lavoro. Lo prevedono due emendamenti approvati dalla commissione Lavoro del Senato che ieri ha completato l’esame di cinque dei sei articoli del Ddl delega Jobs act, rinviando al 16 settembre l’articolo 4 a causa delle divisioni interne alla maggioranza sulla disciplina dei licenziamenti, l’articolo 18 dello Statuto deilavoratori. Il Jobs act ieri è stato al centro di due incontri che si sono svolti a Palazzo Chigi tra il premier Matteo Renzi e il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, eppoi con il responsabile economicodel Pd, Filippo Taddei. Renzi punta ad un’approvazione celere del Ddl, che contenga deleghe al governo sufficientemente ampie.
In modo da superare i contrasti politici in Parlamento e poter gestire come governo una riforma forte del mercato del lavoro attraverso i decreti legislativi.
Sul tema”lavoro” è intervenuto il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi: «Nelle prossime settimane abbiamo la prova impegnativa della legge di stabilità – ha detto – noi di Confindustria chiediamo riforme a costo zero, in particolare la riforma del lavoro, una priorità, comehadetto giustamente Mario Draghi».
Tra gli emendamenti approvati, sono stati rimossi alcuni vincoli nell’applicazione dei contratti di solidarietà per consentire alle aziende di ridurre le ore di lavoro e, se necessario, di assumereprofessionalità concompetenze diverse, per favorire l’ingresso di giovani. Per i contratti di ricollocazione, è stato approvato l’emendamento Ichino (Sc), riformulato dal Governo, che introduce «un collegamento tra misure di sostegno al reddito della persona inoccupata o disoccupata e misure volte al suo inserimento nel tessuto produttivo», attraverso accordi con le agenzie per il lavoro (o altri operatori accreditati). Che dovranno prendere in carico il lavoratore nel percorso di ricerca e saranno remunerate «in proporzione alla difficoltà di collocamento, a fronte dell’effettivo inserimento». Via libera anche a due emendamenti di Catalfo (M5S): il primo sulla definizione di «criteri oggettivi e uniformi» per garantire che la fruizione dell’ammortizzatore Aspi sia condizionata «alla partecipazione obbligatoria a programmi di politica attiva del lavoro». Il secondo prevede «l’impiego delle tecnologie informatiche» per garantire «interoperabilità e lo scambio dei dati», per favorire l’incrocio tra domanda e offerta di lavoro. Sulle dimissioni in bianco, l’emendamento Gatti (Pd) prevede «modalità semplificate per garantire la data certa nonché l’autenticità della manifestazione di volontà del lavoratore», tenendo conto della «necessità di assicurare la certezza della cessazione del rapporto nel caso di comportamento concludente del lavoratore».
Disco verde anche all’emendamento Munerato (Lega) sulla possibilità di cedere – da parte di dipendenti della stessa azienda – tutti o parte dei giorni di riposo aggiuntivi spettanti in base al contratto nazionale, al lavoratore con un figlio in condizioni critiche di salute.
Si prevede la fine dell’esame in commissione entro il 17 settembre per portare il testo in Aula il 23-24 settembre, e votarlo tra fine mese e inizio di ottobre. Per il presidente della Commissione e relatore, Maurizio Sacconi (Ncd), «dopo avere irrobustito le politiche di protezione attiva dei senza lavoro, ci attende la riforma dello Statuto dei lavoratori, per incoraggiare la propensione ad assumere e accrescere la produttività». L’ala centrista della maggioranza è favorevole a una delega estesa al governo per la riscrittura dello Statuto, il Pdintende circoscrivere il perimetro di intervento dell’Esecutivo solo a pochi temi, escludendo la disciplina dei licenziamenti. (Il Sole 24 Ore)
La tentazione di Renzi sull’articolo 18: usare l’indennizzo invece del reintegro
La grande tentazione di Renzi si chiama indennizzo. Superare cioè definitivamente la possibilità prevista ancora dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori di reintegrare i lavoratori ingiustamente licenziati e affidare la soluzione della controversia a un risarcimento monetario. Che questo sia il suo orientamento, il premier l’ha detto chiaramente nell’intervista al Sole 2-4 Ore all’inizio di questo mese. Che questa sia una strada politicamente praticabile è però ancora tutto da verificare. Ecco perché, per ora, né Renzi né il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, scoprono davvero le carte.
Il round importante si sta giocando al Senato. Da martedì la discussione sul Jobs Act, che contiene le linee della riforma del mercato del lavoro che le istituzioni europee considerano necessaria per ridurre i nostri deficit competitivi, si concentrerà sull’articolo 4, cioè quella norma che, tra l’altro, delega il governo a prevedere «eventualmente in via sperimentale» il contratto a tutele crescenti. Ed è tra le righe di questa disposizione che si apre lo scontro nella maggioranza sull’articolo 18. Perché i centristi di Scelta civica e la destra dell’Ncd propongono di superare definitivamente l’istituto del reintegro, mantenendolo solo per i licenziamenti discriminatori, e introdurre per tutti un indennizzo monetario il cui ammontare è destinato a crescere con l’anzianità di servizio aziendale del lavoratore interessato. Una via che Palazzo Chigi considera eccessivamente costosa ma che, tuttavia, con l’introduzione di un sistema di tutele più ampio rispetto all’attuale, così come prevede il Jobs Act, potrebbe effettivamente rappresentare la base per costruire la soluzione. Il nodo è però politico. Il Pd, al Senato e soprattutto alla Camera, dove in commissione lavoro, a cominciare dal presidente Cesare Damiano, è foltissima la rappresentanza dei deputati di formazione Cgil, vede questa ipotesi come fumo negli occhi. E rilancia con un modello diverso: contratto a tutele crescenti, con i soli primi tre anni di assunzione privi della garanzia dell’articolo 18. La conferma del lavoratore dopo i tre anni di prova verrebbe “premiata” con un significativo sgravio fiscale. Resterebbe in generale la funzione deterrente della norma dello Statuto dei lavoratori, e, in particolare, a parte i primi tre anni di sospensione, rimarrebbe inalterata nella formula soft introdotta con la legge Fornero di due anni fa.
Davanti al muro contro muro nella maggioranza, il pallino è chiaramente nelle mani del governo. Il quale potrebbe decidere di individuare la soluzione nel decreto delegato che arriverà prevedibilmente l’anno prossimo, oppure trovare fin dalla prossima settimana, o addirittura in questo fine settimana, un accordo con i partiti della sua maggioranza per poi presentare i relativi emendamenti. Dice Cesare Damiano: «Dobbiamo avere “visibilità” su tutto. Non possiamo avere davanti diversi punti bui». L’ex ministro del Lavoro, oggi esponente della minoranza laburista del partito, chiede un accordo politico. «Altrimenti – aggiunge – si corre il rischio di trasformare la delega sul lavoro in una specie di pallina da ping pong che passa dal Senato alla Camera e viceversa. Questo perché, è bene che si sappia, una eventuale soluzione concordata al Senato senza il preventivo consenso della Camera è destinata a non andare molto avanti. Ripeto, serve un accordo politico impegnativo che vincoli tutti: Renzi, Poletti e le commissioni parlamentari».
Il ruolo di mediatore è stato affidato a Poletti che non si è mai esposto sull’articolo 18. Ha detto che non è di certo il cuore della riforma e che, in ogni caso, ciò che alla fine dovrà essere considerato sarà «l’equilibrio» dell’intero Jobs Act. In linea con quanto Renzi ha dichiarato al Sole quando alla domanda se la soluzione fosse quella del superamento della reintegra obbligatoria prevista dall’articolo 18 ha risposto: «Quella è la direzione di marcia, mi sembra ovvio. Sarà possibile solo se si cambierà il sistema delle tutele».
Ma non c’è solo l’articolo 18 che divide la maggioranza. C’è la richiesta del centro-destra di prevedere il demansionamento del lavoratore e anche quello del suo controllo a distanza. Con il Pd disposto a ragionare (guardando ai possibili scambi con l’articolo 18) purché non si intacchi nel primo caso la retribuzione e nel secondo si sorvegli l’impianto non chi ci lavora. E presto Renzi, che ieri sera ha incontrato Poletti e il responsabile economico del Pd, Filippo Taddei, dovrà decidere quando scoprire le sue carte. (Repubblica)
12 settembre 2014