L’incontro c’è stato, la trattativa no. Lo sciopero nazionale indetto una settimana fa da Cgil,Uil e Ugl contro la riforma del lavoro, un risultato lo ha prodotto, visto che ieri il ministro Poletti ha convocato a Palazzo Chigi sindacati e imprese. Ma sul tavolo, a pochi giorni dal Consiglio dei ministri che darà il via al primi due decreti attuativi del Jobs Act, non è stato messo alcun testo. «Siamo qui per ascoltare, presentare le posizioni del governo, discutere e raccogliere istanze, sapendo che non ci sarà alcuna trattativa» ha detto il ministro ai leader sindacali.
Anche dei due decreti che dovrebbero essere varati il 24 dicembre (l’estensione degli ammortizzatori sociali anche ai collaboratori e il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti) Poletti ha parlato a grandi linee e con pochi dettagli. Il confronto, ha poi detto alla fine dell’incontro, «si è svolto in un clima positivo».
Ma a parte le aperture della Cisl (soprattutto sul contratto) e Confindustria (che parla di «passi avanti») così non è sembrato, visti i commenti infuocati di Cgil e Uil che si dicono «pronti alla lotta» anzi «a lotte crescenti».
«Continuiamo ad avere la sensazione che quando vedremo tutto il quadro ci saranno moltissime contraddizioni, con il rischio di fare significativi guai» ha detto Susanna Camusso, leader della Cgil. «Il «cuore» della proposta del governo è che si passa dalla tutela reale dei lavoratori ad un contratto a monetizzazione crescente». Il Jobs Act, per la Cgil, è «una delega esplicita alle imprese sulla politica economica del Paese», tanto più che anche su quel che resta dell’articolo 18, «il governo sta lavorando per rendere del tutto inefficace la tutela della reintegra in tutti i casi che non siano il solo licenziamento discriminatorio». Posizione condivisa in toto dalla Uil che il leader Carmelo Barbagallo sintetizza così: «Vogliamo impedire iniquità e stragi di posti di lavoro. Anche questa volta il governo si è presentato senza uno straccio di documento». Nel contratto a tutele crescenti « si parla di licenziamenti e non di occupazione ed è singolare constatare come questo provvedimento entusiasmi la parte datoriale». «Aspettiamo di leggere i testi – ha aggiunto – ma se le cose fossero così come le avete dette, vi promettiamo lotte crescenti».
Licenziamenti, scatta il reintegro se il fatto contestato non sussiste
«Il fatto materiale non sussiste»: sarà molto probabilmente questa la formula che riaprirà le porte dell’azienda ai lavoratori cacciati via per un licenziamento disciplinare ingiustificato. «Fatto» non «fatto grave» e nemmeno «reato» e la questione non è da poco, perché – secondo quanto detto ieri dal ministro Poletti ai sindacati – se l’orientamento del governo sarà questo, il dipendente licenziato avrà qualche possibilità in più di tornare al lavoro rispetto a quanto vorrebbero le imprese e l’ala centrista della maggioranza. I «fatti insussistenti » sono più numerosi dei «reati insussistenti»: ciò vorrà dire – per esempio – che in caso di assenza da lavoro non giustificata (non è un reato) se si dimostra che «il fatto non sussiste», ci sarà il reintegro. Stessa cosa per un danno provocato per fatto non doloso.
Maurizio Sacconi di Ncd non è contento di questa lettura e ha già parlato di «governo a rischio », ma sarebbe in realtà uno dei pochi ammorbidimenti concessi sulla riformulazione dell’articolo 18. E i sindacati sono convinti che il governo si sia deciso a parlare di fatti e non di reati solo perché, nel secondo caso, il dipendente ingiustamente licenziato potrebbe querelare l’azienda e allungare i tempi dell’allontanamento.
Sta di fatto che nell’incontro di ieri, a pochi giorni dall’emanazione dei primi decreti, di passi avanti se ne sono visti pochi. E’ ancora in sospeso, per esempio, la questione dell’indennizzo per licenziamento ingiustificato (sia per motivi economici che per la maggior parte di quelli disciplinari). Se per le piccole imprese (sotto i 15 dipendenti) la quota resta quella attuale (fra i 2,5 e i 6 mesi di stipendio) per le imprese più grandi resta la quota massima (24 mesi), ma ancora non si sa quale sarà l’indennizzo minimo. La bozza iniziale del governo prevedeva 1,5 mesi per ogni anno di lavoro, ieri – secondo quanto riferisce la Uil – la forbice minima, entro il primo anno, sarebbe stata delineata fra i 3 e i 6 mesi. Il governo non ha ancora deciso: pare che Poletti punti ai 6 e Palazzo Chigi freni sui 3. «E’ sconcertante, fuori dal mondo che sulle indennità di licenziamento, che riguardano milioni di lavoratori, il governo non dia ancora indicazioni precise e tenga le decisioni nascoste nelle segrete stanze » sottolinea il segretario confederale della Uil, Guglielmo Loy «Qui non si tratta di trattare con il sindacato, ma con il Paese».
Un tema spinoso quello delle indennità conteggiate in stipendi, tanto più che ieri l’Istat ha certificato come, nel 2014, le buste paga degli italiani abbiano segnato la crescita più bassa degli ultimi 33 anni. A novembre l’aumento è stato dell’1,1 per cento e se a dicembre non accadrà qualcosa di nuovo l’anno si chiuderà con un più 1,3, come mai era accaduto dal 1982. L’unica consolazione arriva dal confronto con i prezzi, praticamente fermi.
Tornando al Jobs act, resta da definire anche il fatto se lo scarso rendimento sia considerato valido o meno ai fini del licenziamento per motivi economici. Se ne discute, «ma questa ipotesi non fa parte delle riflessioni fatte dal ministro Poletti» ha detto Teresa Bellanova, sottosegretario al Welfare. «Al momento la fattispecie non rientra», ma una risposta definitiva non c’è anche se, di certo, la definizione di quale sia uno scarso rendimento qualche difficoltà la potrebbe creare.
Certo il quadro complessivo delineato ieri dal governo non piace ai sindacati, anche se va sottolineato come la Cisl sia molto più possibilista di Cgil e Uil. Al sindacato guidato da Annamaria Furlan il contratto a tutele crescenti piace: oggi presenterà uno studio per dimostrare come garantisca alle imprese un risparmio fiscale di 8 punti percentuali sul costo del lavoro. Il che sarebbe garanzia, sostiene, di una migliore predisposizione all’assunzione.
Licenziamenti collettivi, nodo ancora sul tavolo
La riforma dei regimi sanzionati in caso di licenziamenti illegittimi nel nuovo contratto a tutele crescenti potrebbe non interessare, per ora, i licenziamenti collettivi. La questione, tuttavia, è ancora aperta; e anche ieri è stata al centro del dibattito tra i tecnici di Palazzo Chigi e ministero del Lavoro e il responsabile economico del Pd, Filippo Taddei.
Il problema, sollevato dal dicastero guidato da Giuliano Poletti è la difficoltà normativa a metter mano alla legge 223, soprattutto per quanto riguarda il tema delle procedure di informazione e consultazione sindacale; anche se il regime sanzionatorio opera a valle delle procedure sindacali di consultazione e non incide direttamente su di esse. Insomma, si vorrebbero uniformare le regole di tutti i licenziamenti economici, individuali, plurimi e collettivi, ma per questi ultimi probabilmente bisognerà attendere il decreto con il nuovo codice semplificato del lavoro.
Questo “rinvio” sarebbe un passo indietro da scongiurare perché si rischia solo confusione di norme, spiegano gli esperti. Oggi si ha un licenziamento individuale (c.d. plurimo) se si licenziano 4 dipendenti ogni 120 giorni per ciascuna provincia. Con il nuovo contratto a tutele crescenti per loro scatterebbe la tutela risarcitoria. Per i licenziamenti collettivi (se si arriva a 5 dipendenti da licenziare) invece, se illegittimi, oggi, in base alla 223, scatta la reintegra se c’è violazione dei criteri di scelta dei lavoratori; oppure scatta l’indennizzo se la violazione è della procedura sindacale. Se le nuove regole non si dovessero applicare, a loro, resterebbe questo regime sanzionatorio. E qui nascerebbero i problemi: visto che «la differenziazione tra licenziamento collettivo, plurimo, individuale, è così sottile – spiega Arturo Maresca, ordinario di Diritto del lavoro alla Sapienza di Roma – che non cambiare il regime sanzionatorio uniformandolo per tutti i licenziamenti economici (individuali e collettivi) porterebbe ad una situazione irrazionale che potrebbe assecondare comportamenti opportunistici delle imprese finalizzati a evitare la reintegrazione dando luogo a un complesso contenzioso giudiziario». Il nodo, aggiunge Maresca, «è semmai quello di armonizzare il regime sanzionatorio del licenziamento collettivo illegittimo con quello che riguarda i dirigenti per i quali è stato previsto recentemente (dal 25 novembre con la legge comunitaria) il diritto a un indennizzo da 12 a 24 mensilità».
Repubblica e Sole 24 Ore – 20 dicembre 2014