Ritorno al passato, alle proroghe, alle deroghe, alle tutele passive svincolate dalla ricerca attiva di una nuova occupazione. È il mercato del lavoro che fatica a cambiare a dispetto degli annunci. Ora arriva la proroga per la dis-coll che sta per indennità di disoccupazione destinata ai collaboratori, una platea potenziale di 350 mila persone, solo un settimo delle quali però la riceve per davvero.
Poi — forse — ci sarà la soluzione definitiva all’interno di quel piccolo “Statuto del lavoro autonomo” che viaggia in Parlamento da oltre un anno tra mediazioni estenuanti e soluzioni parziali senza mai diventare una priorità nel Paese che ha il tasso di lavoro indipendente più alto d’Europa. Si mettono toppe qua e là. Una volta sui co.co.co, la prossima sui voucher (frenati, intanto, con le prime forme di tracciabilità); nel mentre sono state approvate le proroghe per la cassa integrazione nelle cosiddette aree di crisi complessa, compresa quella dell’Ilva per sventare, almeno per un po’, il rischio che esplodano le tensioni sociali. Una proroga dopo l’altra, come per le salvaguardie (diventate ormai otto) per gli esodati, figli di una riforma fatta male e gestita peggio e dalla quale sono stati drenati così ben più di dieci di miliardi dai risparmi attesi. E ancora: l’indennità di mobilità non c’è più, ma prima o poi potremmo cominciare ad averne nostalgia. Ai margini del mercato del lavoro, d’altra parte, si continua a navigare a vista indossando, per assenza di alternativa, gli occhiali del passato.
Il Jobs Act si era intestato la missione di cambiare la cultura del mercato del lavoro: tutele meno invasive e permanenti al posto di lavoro, in cambio di maggiori opportunità per il lavoratore. Sull’esempio di ciò che accade nei paesi del Nord Europa dal welfare state forte. Ma le politiche attive si limitano ancora a qualche accenno. L’obiettivo così è stato mancato. Certo è mutato il flusso di accesso al lavoro (più contratti stabili rispetto al passato spinti dall’overdose della decontribuzione per un totale di 15-18 miliardi a regime) ma la percezione (e non solo) di una precarietà (perlopiù giovanile) ancora diffusa non si è attenuata. Nel rapporto di lavoro si è ulteriormente rafforzata la posizione del datore (licenziamenti più facili senza articolo 18, demansionamento e controllo a distanza) ma questo — a fronte di lacerazioni sociali e politiche — non ha prodotto la svolta promessa. Perché i risultati sono insignificanti: tra il 2014 e il 2016 (dati Eurostat) abbiamo creato 485 mila posti di lavoro e ben 392 mila stabili (la Spagna rispettivamente un milione e 23 mila contro solo 370 mila), in un mercato del lavoro che continua ad essere fermo a 22 milioni circa di occupati. Uno stock di lavoratori immobile. Il raffronto con il 2008, primo anno dentro la Grande crisi, sono impressionanti: il tasso di disoccupazione generale era al 6,7 per cento, un livello quasi fisiologico, ora siamo al 12 per cento circa; c’erano 1,6 milioni di persone senza lavoro, ora sono quasi tre milioni. Tra i giovani la quota dei disoccupati era del 21,2 per cento ora siamo quasi al doppio, con il 40 per cento. Il Jobs Act è passato sostanzialmente invano da questo punto di vista. Anche se per effetto delle demografia (sono ancora al lavoro le coorti degli anni del baby boom) e poi della legge Fornero che ha fortemente innalzato l’età per l’accesso alla pensione, è cresciuta la percentuale di occupati over 50 (+5 per cento tra il 2016 e il 2015).
Si è reiterata la strategia (e forse anche l’errore) di affidare alle regole la funzione di creare posti di lavoro. Ma più che le norme legislative in senso stretto hanno funzionato gli sconti fiscali e contributivi. Per restare all’ultimo anno (confronto 2016-2015) gli occupati trascinati dagli incentivi sono cresciuti più dell’1 per cento contro un Pil che stenta ad avvicinarsi all’uno. Eccola la nostra malattia endemica: la bassa produttività. Che continua a calare dagli anni 90. Altro che Jobs Act.
Repubblica – 12 febbraio 2017