Tusayan, Arizona. Poche centinaia di anime, al margine della foresta che circonda il Grand Canyon. Sulla main street spicca un’insegna: “We make pizza and pasta”. Poco più di un fast food, gestori orientali, menu infinito. Nel quale, come in migliaia di altri ristoranti sparsi negli Usa, il posto d’onore lo occupano le “Fettuccine Alfredo”.
Come sia possibile che questo piatto, praticamente introvabile nei nostri ristoranti, sia diventato nel mondo il simbolo della cucina italiana è un mistero che affonda le sue origini all’inizio del secolo scorso. Quando un oste romano, Alfredo Di Lelio, ne creò la ricetta. In realtà semplicissima: fettuccine di semolino condite con parmigiano (tanto) e burro (tantissimo).
Una bomba calorica che due star del cinema muto, Douglas Fairbanks e Mary Pickford, assaggiarono durante il viaggio di nozze a Roma. Restandone così estasiati da donare al cuoco due posate di oro massiccio. Fama immediata, e l’inizio di un successo travolgente. Negli Usa. Perché in Italia questo piatto si può assaggiare (a caro prezzo) solo in due ristoranti romani.
La fettuccina Alfredo è il capostipite, ma in realtà sono molti i piatti che nel resto del mondo sono ritenuti autenticamente italiani, e degni rappresentanti della nostra tradizione, pur essendo per noi dei perfetti sconosciuti. Il fatto, probabilmente, è che quella italiana, soprattutto nei paesi anglosassoni, è diventata cucina quotidiana per milioni di persone, quella che la gente comune mangia a casa, o cerca nei supermercati (al contrario di quella francese, ancora “relegata” nei ristoranti di lusso). Un successo del quale possiamo, giustamente, vantarci. Ma che comporta dei rischi: da quelli economici, con miliardi di danni dovuti al fenomeno dell’italian sounding (prodotti esteri spacciati per italiani grazie a nomi che ammiccano alla nostra lingua), fino allo stravolgimento e alla ridicolizzazione delle nostre ricette più famose. È di pochi mesi fa la querelle su una improbabile carbonara proposta da un sito francese, che quasi provocò un incidente diplomatico. Più recente l’ondata di indignazione patriottica per i rigatoni alla “bolognese bianca” pubblicata dal New York Times.
Come che sia, soprattutto negli Stati Uniti, i menu dei ristoranti sono infarciti di piatti che di tipicamente italiano hanno solo il nome, o una lontana origine, ma che i clienti considerano parte del nostro patrimonio.
Qualche esempio? Gli “Spaghetti bolognese”, ignoti a Bologna; la “Pizza all’ananas”, che farebbe vergognare qualsiasi pizzaiolo napoletano; l’”Italian dressing”, condimento per insalata che nessun italiano azzarderebbe, tra olio di soia, paprika, peperoncini dolci e sciroppo; la “Marinara sauce”, in pratica l’equivalente, in rosso, delle fettuccine Alfredo. Che dire, poi, dell’usanza, per fortuna ormai in via di estinzione, di servire la pasta, stracotta oltre ogni limite, come contorno di una bistecca al sangue.
Più interessante, invece, dal punto di vista culturale, la storia di un altro piatto immortalato in decine di film sui gangster italo- americani: gli “spaghetti meatball”, gli spaghetti sormontati da enormi polpette di carne. Che nessuno in Italia fa, ma che almeno hanno avuto origine nelle comunità di emigrati italiani nelle città Usa dei primi del Novecento. I nostri connazionali, scappati dalla miseria, nella quale la carne era un raro lusso, esibivano in questo modo un inedito benessere.
Facile allora immaginare la delusione di molti turisti stranieri che, nei loro viaggi in Italia, aprono fiduciosi il menu della trattoria e non trovano nessuno di questi piatti, che sognavano di provare in una (inesistente) versione “originale”. Unica, parziale, consolazione, la possibilità di godere di quello che considerano, anche in questo caso a torto, un rito tutto tricolore: bere un fumante cappuccino a fine pasto.
Quelle polpette sulla pasta “inventate” dai nostri immigrati negli Usa fuggiti dalla miseria
Repubblica – 18 settembre 2016