La nuova legge elettorale? Bloccata. Quella per tagliare il finanziamento ai partiti? Non pervenuta. Tutte le altre riforme? Impantanate. L’azione del governo? Già finita. Da noi è il Palazzo che ci sta portando verso la Grecia
Spread alle stelle, la recessione più pesante d’Europa, un sistema politico impazzito. Dopo sei mesi di governo tecnico, il premier Mario Monti giurò al Quirinale il 16 novembre, la crisi italiana torna ad avvitarsi su se stessa. E’ l’ultima paura: fare la fine della Grecia. Psico-dracma. “La probabile uscita della Grecia dell’euro è un precedente drammatico per noi”, ragiona ad alta voce Bruno Tabacci nel pomeriggio in cui ad Atene i partiti si avventurano verso il buco nero di nuove elezioni mentre a Roma il Palazzo è paralizzato dai soliti veti incrociati. Come in una tragedia di Sofocle, un destino maledetto, una sorte beffarda che si abbatte sugli uomini. Anche se, nel caso italiano, il Fato c’entra poco.
L’incubo del default politico. L’incapacità del sistema di auto-riformarsi, nonostante i ripetuti appelli di Giorgio Napolitano. Sempre più preoccupato di concludere il suo settennato nel caos, al pari del collega greco Karolos Papoulias, 82 anni, ex partigiano, il presidente della Repubblica ellenica che fino all’ultimo ha provato a scongiurare la catastrofe seguendo la ricetta italiana, un governo tecnico appoggiato da tutti i principali partiti. In Grecia il tentativo è fallito ancor prima di cominciare. In Italia invece l’operazione Monti, il governo del Presidente, il capolavoro di Re Giorgio, è sembrato rappresentare la transizione dolce dal berlusconismo, la tregua politica, la possibilità di salvare l’Italia dal crack economico e di riformare le istituzioni. Ma ora che la tempesta finanziaria riprende a infuriare, al Quirinale si assiste a uno spettacolo che va nella direzione opposta.
Le riforme, sempre annunciate dai capi di tutti i partiti, rischiano di finire sul binario morto della commissione Affari costituzionali del Senato, con buona pace degli impegni sbandierati dal presidente dell’assemblea Renato Schifani. “Siamo pronti a lavorare il sabato, la domenica e l’estate per raggiungere l’obiettivo”, aveva garantito la seconda carica dello Stato il 29 marzo. “Fare sul serio le riforme è un “must”, è l’unico modo per recuperare credibilità”. Ma all’inizio della settimana decisiva Schifani si è come eclissato. Inseguito al telefono dalla capogruppo del Pd Anna Finoccchiaro e dal vice-capogruppo del Pdl Gaetano Quagliariello, senza successo. Quando è riemerso si è deciso per un altro rinvio: la commissione presieduta dal palermitano Carlo Vizzini, ex Pdl, voterà i 250 emendamenti al testo di riforma costituzionale la prossima settimana. Dopo i ballottaggi del voto amministrativo, quando l’attenzione si sposterà sulle rese dei conti post-elettorali. “Per approvare le riforme prima della fine legislatura siamo ben oltre i tempi supplementari”, ammette Vizzini. E per i partiti diventa elevatissimo il rischio di una campagna elettorale da affrontare a mani vuote: zero riforme.
Il temporeggiare di Schifani riflette l’incertezza sulla legge elettorale che dovrebbe eliminare il Porcellum. L’accordo raggiunta al tavolo guidato da Luciano Violante è saltato dopo il primo turno delle amministrative. “Quella proposta ci porta in Grecia”, ha scandito Romano Prodi, facendo infuriare il segretario del Pd Pier Luigi Bersani. Non è solo una metafora: in Grecia c’è una soglia di sbarramento del 3 per cento, circoscrizioni piccole che avvantaggiano i partiti più grandi, un premio di seggi per la lista che arriva prima, marchingegni previsti anche nella bozza Violante. Peccato che, in Grecia come in Italia, con le forze maggiori in caduta verticale di consenso, siano meccanismi che consegnano il Parlamento all’ingovernabilità.
Al Quirinale si assiste con preoccupazione anche alla crescente stanchezza del governo Monti. Chi ha incontrato il premier nelle ultime settimane lo ha visto sempre più provato dalle difficoltà interne e internazionali in cui si trova a muoversi. E nella squadra di governo, ministri e sottosegretari, cominciano a spuntare rivalità, dissensi e qualche pasticcio. Per esempio la brutta figura incassata dal ministro della Giustizia Paola Severino, con un sottosegretario (Andrea Zoppini), che si è dimesso perché indagato per frode fiscale, e un altro (Salvatore Mazzamuto) che ha fatto infuriare mezzo Parlamento con gli emendamenti sul falso in bilancio nel disegno di legge anti-corruzione. Oppure il sordo scontro tra il ministro cattolico Andrea Riccardi e la collega del Lavoro Elsa Fornero. Il primo in difesa della famiglia, la seconda intenta a terremotare il modello tradizionale (“Le coppie di fatto e le coabitazioni tra persone dello stesso sesso chiedono di essere considerate famiglie”). Un altro ministro, Fabrizio Barca, sdrammatizza: “Noi professori siamo ignoranti in molte questioni. Dobbiamo sperimentare e risperimentare…”.
L’Espresso – 20 maggio 2012