di Dario Di Vico Per tentare di capire i giovani di oggi non si può prescindere dal cibo. Siamo in presenza infatti di una profonda trasformazione della cultura dell’alimentazione dei ragazzi nati tra gli 80 e il 2000. Si lasciano alle spalle il mito della quantità e l’equazione cibo = salute, che aveva accomunato i loro genitori e i loro nonni, e hanno maturato nel frattempo un forte scetticismo nei confronti della trasparenza dell’industria alimentare.
Il passaggio del cibo da mero nutrimento a fattore identitario non è nuovo, è un filone che dura almeno dagli anni 90 e ha sorretto la rivalutazione dei prodotti tipici e del made in Italy contro quella che veniva chiamata la McDonaldizzazione. I giovani di oggi vanno oltre. Non demonizzano la globalizzazione e infatti adorano la varietà dei cibi etnici, usano la Rete come veicolo principale di informazioni sul cibo, in tv non si fanno mancare le puntate di Masterchef e dello show cooking ma hanno anche mutuato l’idea pessimistica che dal cibo bisogna anche difendersi. E del resto è difficile separare la loro cultura alimentare da quella dello sviluppo: hanno introiettato infatti una visione complessiva di un mondo «precario» che deve fare i conti con i limiti delle risorse e con una modernità che crea danni all’ambiente e al corpo.
Lontani dalla carne
Nella vita di tutti i giorni tutto ciò emerge di continuo e l’avanzata del bio ne è il fenomeno più evidente. Oltre un quinto dei millennial compra solo prodotti biologici. La seconda tendenza «forte» è la riduzione di consumi di carne: 16 milioni di italiani nel 2015 ne hanno mangiata meno e i giovani sono il nocciolo duro di questa ritirata, lo testimonia la crescita del movimento vegetariano e vegano aumentata di due punti (dal 6 all’8% della popolazione). Di conseguenza sono i giovani a far ripartire i consumi di frutta e verdura, con mele, patate e pomodori che trainano il gruppo. Ovviamente quando si parla dei giovani a tavola entra in ballo l’autonomia di scelta (sono 3-4 milioni, secondo Albino Russo, dell’ufficio studi di Lega Coop, quelli che possono decidere cosa comprare). Le famiglie con un 35enne a capo non sono tante ma è anche vero che i giovani che vivono con i genitori non si attengono al menù familiare ma si sono conquistati, in virtù della nuova consapevolezza alimentare, larghi spazi di autonomia. Sono 7,7 milioni i millennial che dichiarano di consumare abitualmente cibi etnici e infatti quinoa, zenzero e curcuma sono i «superfood» che crescono a ritmi vertiginosi nelle vendite dei supermercati al contrario di olio d’oliva, pomodori, pasta. Chi tra i giovani si diletta anche a cucinare va su Google con lo smartphone alla ricerca di ricette e consigli culinari. Aperti agli influssi in verità lo sono stati anche da bambini, una buona fetta di loro ha festeggiato i primi compleanni da Mc Donald’s con palloncini, happy meal e bibite gassate ma adesso è più attratta dal kebab, dal bistrot coreano e dal sushi. Sui social impazza la condivisione di foto che documentano colazione, pranzo e cena e uno degli hashtag più diffusi è Foodporn , per indicare la mania e il piacere voyeuristico del cibo. I food blogger poi sono diventati icone capaci di sfidare in popolarità gli chef stellati.
La variabile economica
Quanto hanno contato i fattori economici (e la Grande crisi) nel modellare queste trasformazioni? Hanno portato i millennial ad assorbire l’idea di una modernità inceppata e incapace di risolvere i vecchi problemi e i nuovi. E hanno prodotto anche quella che, secondo il Censis, è una disuguaglianza alimentare con la sostituzione della dieta mediterranea con «prodotti artefatti e iperelaborati a basso contenuto di nutrienti». Siamo dunque in presenza di un nuovo food social gap, una tavola differenziata per ceti sociali. Le diete prima ancora che da valori e stili di vita, per il Censis, tornano a essere condizionate dalle diversificate disponibilità di reddito e di spesa delle famiglie. «Dalla crisi stiamo uscendo con una forte divaricazione nel consumo di cibo — conferma Russo, della LegaCoop —. In Puglia la spesa nel discount ha raggiunto quota 32% e in generale si registra un impoverimento del carrello». Non tutti gli analisti sono però d’accordo su un’interpretazione centrata sull’economia a scapito dei fattori culturali e sostengono che la carne è diventata l’emblema del pessimismo gastronomico perché i giovani pensano che sia difficile da tracciare e manchino nella filiera qualità e certificazione. Ci sono anche gruppi che guardano al benessere degli animali e quindi lo «sciopero della carne» è una contestazione che tende a colpire l’industria di trasformazione. Si spiega così il raddoppio della quota di vendite dirette a km zero e il successo dei mercatini dei contadini. Insomma la dieta è figlia della sfiducia: vuoi controllare cosa metti nel piatto, sapere da dove viene e come è stato trasformato. L’ossessione compulsiva nel controllo delle etichette dei prodotti fa il resto, come testimonia la caccia all’olio di palma, ai coloranti e agli additivi di qualsiasi tipo. In questo filone possiamo anche catalogare il ritorno alla terra testimoniato dall’aumento delle partite Iva dell’agricoltura e delle start up legate al cibo. Chi si dedica alla birra, al mais corvino, chi coltiva lo zafferano in Lombardia, chi lancia la nuova formula del gelato arrotolato senza cono. «Che il cibo stia focalizzando le attenzione dei giovani — commenta Oscar Farinetti, fondatore di Eataly — non deve stupirci. Riconoscono l’importanza di ciò che ingeriamo e, visto il livello di istruzione più elevato, si vuole sapere tutto e non si delega più. Girando il mondo vedo però che i giovani italiani si nutrono meglio di quelli di altri Paesi. La provincia americana è tremenda».
Differenze territoriali
Le differenze territoriali sono forti anche in Italia e del resto la nostra tradizione vive anche di campanilismo culinario. Milano e le città metropolitane del Nord sono quelle dove nascono i food blogger , in cui i nuovi ristoranti e persino i supermercati delle grandi catene strizzano l’occhio al consumo sostenibile e ai giovani. Davide Paolini, che ha scritto un pamphlet dal titolo «Il crepuscolo degli chef», addirittura paragona il sistema cibo dei nostri giorni alla febbre del tulipano, quando in Olanda si compravano bulbi sperando di diventar ricchi. «Un’analoga frenesia si vede a Milano nell’apertura di locali alla ricerca di una nuova fortuna». In provincia però le cose cambiano, i giovani restano orgogliosi delle tradizioni gastronomiche emiliane, venete o piemontesi, non rompono con il tratto identitario dei loro padri e restano più abitudinari «ma comunque si nutrono con maggiore intelligenza di prima», secondo Farinetti. I problemi li troviamo a Sud. Dice Gabriele Riccardi, docente all’università Federico II di Napoli: «Nel Meridione ci sono tassi di sovrappeso e obesità giovanile più elevati rispetto al Nord, dovuti a un mix di questioni culturali e socioeconomiche. La fascia più povera continua a scegliere la quantità come valore positivo predominante sulla qualità».
Il Rapporto Osservasalute evidenzia infatti come in Italia ci siano picchi di obesità nel Molise del 14%, del 13% in Abruzzo e del 12% in Puglia. Spiega lo stesso Riccardi: «Il consumo di cibi ipercalorici fuori pasto è la causa principale del fenomeno dei giovani obesi, la sedentarietà e la bassa pratica sportiva fanno il resto». Purtroppo, conclude Farinetti, «nelle regioni povere la gente è più obesa e si tratta di un rovesciamento delle parti rispetto alla storia. Nel Risorgimento i ricchi erano obesi e in qualche maniera se ne vantavano. La contraddizione però che è nel Sud ci sono le materie prime più sane e invece i cibi più controllati si mangiano al Nord. Di mezzo come sempre c’è la cultura e infatti i giovani settentrionali fanno più moto perché hanno preso le abitudini delle grandi metropoli del mondo».
Il Corriere della Sera – 14 novembre 2016