Roberto Perotti. Mentre a Kiev si svolgeva il festival europeo della canzone, a Bari si concludeva il festival mondiale delle parole. Il G7 economico finanziario si è concluso con l’ennesimo manifesto politically correct, questa volta per la “crescita inclusiva”. È lecito sospettare che il ministro dell’Economia di un paese con la disoccupazione all’11 per cento abbia cose più pressanti di cui occuparsi che partecipare a queste kermesse periodiche. Ma almeno c’è un lato positivo: il G7 di Bari non ha combinato disastri.
Non così si può dire del Consiglio europeo che nel 2015 licenziò il piano Juncker, una delle più grandi operazioni mediatiche di questi anni. Ora è rimasto soltanto il simbolo dei guasti causati dalla retorica di politici che si rifiutano di fare i conti con la realtà, aiutati da collaboratori pronti a ingannare e a farsi ingannare per compiacerli.
Il piano Juncker è un fondo di 21 miliardi di euro, che dovrebbe consentire almeno 315 miliardi di nuovi investimenti in tre anni. L’idea era semplice. Il fondo viene usato per garantire le perdite sui finanziamenti erogati (anche attraverso garanzie) dalla Banca Europea degli Investimenti. Per ogni euro di garanzia ricevuto dal fondo, la Bei può erogare tre euro di finanziamenti extra: il “moltiplicatore del fondo” è quindi pari a tre. Ogni euro di finanziamenti della Bei, a sua volta, attrae almeno quattro euro di finanziamenti privati: il “moltiplicatore della Bei” è quindi pari a cinque. Tre per cinque uguale quindici, e da 21 miliardi si arriva a 315 miliardi.
In Italia il piano venne quasi unanimemente salutato come una svolta epocale (oltre che come un grande successo della nostra diplomazia). Ed è comprensibile: come non rimanere estasiati davanti a un simile miracolo? Come non unirsi all’unanime coro magnificante?
Nella realtà, quattro cose sono andate storte in questo quadro idilliaco, e tutte erano perfettamente prevedibili. Dei ventuno miliardi di garanzie annunciati, sei furono dirottati da programmi esistenti, e funzionanti in gran parte allo stesso modo; cinque provengono dalla stessa Bei. Le risorse addizionali sono quindi in realtà al massimo dieci miliardi (e di questi, otto non sono mai stati versati né programmati: dovranno essere versati solo nel caso le perdite del fondo eccedano tredici miliardi). Anche prendendo per buono il moltiplicatore di quindici, i nuovi investimenti mobilitati sarebbero quindi al massimo 150 miliardi, non 315.
Ma il moltiplicatore era pura fantasia. Finora la Bei ha concesso garanzie a progetti italiani per tre miliardi di euro contro investimenti totali per sette miliardi e mezzo: un moltiplicatore della Bei di due e mezzo invece che cinque (le cose sono andate un po’ meglio nel resto della Ue, con un moltiplicatore di tre e mezzo).
Inoltre, in molti casi non è stata la garanzia Bei a rendere possibili gli investimenti: molti sarebbero stati fatti lo stesso. In questi casi, il sussidio del piano Juncker è uno spreco di soldi del contribuente. Il marketing dell’annuncio del piano Juncker faceva leva sul famoso partenariato pubblico – privato: grazie a questo, si disse allora, si potranno finanziare anche investimenti “sociali”, come il programma di costruzione delle scuole.
Non una scuola è stata finanziata con il piano, e per un motivo ovvio: il partenariato pubblico – privato funziona se l’investimento genera nel tempo un flusso di profitti che ripagano il partner privato. Da quando in qua le scuole generano profitti? Diciamo la verità, non ci voleva molto a capirlo. Né a scoprire che in Italia gli esempi di partenariato si contavano sulle dita di una mano. Non c’è da stupirsi se 300 milioni sono stati erogati a Trenitalia per l’acquisto di treni regionali e 500 milioni a Telecom Italia, due imprese che hanno accesso al mercato senza alcun bisogno di sussidi.
Chiamiamo le cose con il loro nome: il piano Juncker è un vero monumento alla cialtroneria. Che lezioni trarne? Realisticamente, non si poteva chiedere ai politici di leggere e capire i dettagli del piano: era compito delle strutture allertarli sugli aspetti più critici.
Allo stesso tempo, i cittadini hanno diritto di assumere un minimo di buon senso nei loro politici: e bastava appunto il buon senso per mettere in dubbio una moltiplicazione delle risorse pari a quindici. Fu un classico circolo vizioso. I politici avevano bisogno di mostrare che combattevano contro “l’austerità”; le strutture non avevano nessuna voglia di crearsi problemi mettendosi di mezzo. I media e gli imprenditori fecero il resto, osannando acriticamente, in parte per la pigrizia di leggersi i dettagli al di là dei comunicati stampa, in parte perché faceva comodo.
Sento già l’obiezione: il tuo è il solito discorso tecnocratico, il mestiere dei politici è prendere voti. Vero: ma quanti voti ha spostato il piano Juncker? Realisticamente, una manciata. Per questo il piano Juncker è un esempio della doppia superficialità dei politici e delle strutture: raffazzonato, e non è neanche servito a prendere voti. Qualcuno colpevolmente ingannò, qualcun altro altrettanto colpevolmente si lasciò ingannare. E molti furono allo stesso tempo ingannati e ingannatori.
Repubblica – 15 maggio 2017