di Federico Fubini. «Ero andato a Palazzo Chigi, chiamato, per ridurre la spesa pubblica. Poi però mi sono reso conto che si era deciso di non farlo seriamente. Rispetto le valutazioni politiche, ma a quel punto a me non interessava più star lì. Era inutile». Roberto Perotti, 55 anni, ha un piccolo ufficio dalle pareti di cristallo in un’ala nuova della Bocconi a Milano. È più luminoso e tranquillo di quello romano da consigliere del premier che occupava fino all’anno scorso, prima di dimettersi.
Il governo fa notare che dal 2014 la spesa è già stata ridotta di 25 miliardi.
«Non è un’affermazione inesatta, ma altamente ingannevole. I capitoli che sono stati ridotti, lo sono stati per circa 25 miliardi. Nel frattempo altri sono stati aumentati in maniera equivalente, quindi la spesa non è scesa».
Pensa che almeno la qualità sia migliorata?
«Difficile migliorarla se non c’è un intervento pianificato bene dall’inizio. Si sono accumulate misure soprattutto nel campo del welfare, piccole e poco coordinate. Non c’è stato un disegno, che comunque non è mai facile. Proprio per questo andava pensato sugli anni che questo governo aveva a disposizione».
Pensa ai bonus di vario tipo?
«Inutile negarlo: nonostante la retorica politica, associare il bonus ai 18enni a un aumento della spesa anti-terrorismo non ha senso. E molti dei programmi di cui si sta parlando adesso — quattordicesima, aumento delle pensioni minime, bonus fertilità — sono piccoli, ma spesso elettorali. Soprattutto, sono estemporanei, disperdono risorse preziose che potrebbero essere usate meglio, con un disegno organico, per raggiungere chi ha davvero bisogno».
Invece i 25 miliardi di tagli fatti da dove vengono? Dalle nuove centrali d’acquisto?
«Quelle non sono ancora apparse a bilancio, si vedranno sul 2016. Alla fine si spera porteranno 4 o 5 miliardi, ma per quest’anno solo in minima parte. Per il resto sono stati tagliati i trasferimenti a Regioni ed enti locali, anche se non è detto che siano davvero minori spese perché potrebbero dar luogo ad aumenti di tasse decentrate. Poi ci sono due miliardi di tagli ai ministeri, cinque al fondo per la riduzione del cuneo fiscale e altre misure».
Il deficit sta aumentando?
«La decisione di farlo salire di circa l’1% del Pil rispetto agli impegni presi poteva avere un senso, dopo la recessione. Sarebbe stato importante invece rispettare gli impegni sulla spesa, per poter ridurre le tasse magari più di quanto si riduceva quest’ultima. Perché per tagliare le tasse in maniera permanente bisogna anche ridurre le uscite. Annunciare sgravi è facilissimo, tagliare la spesa pubblica è maledettamente difficile. Non ci si riesce in tre mesi».
Facile per voi esperti dare consigli. Non siete voi a dover gestire le conseguenze sociali e politiche dei trasferimenti tagliati, delle commesse alle imprese interrotte.
«Assolutamente. Proprio per questo il solo modo è farlo con un approccio complessivo. Il fine ultimo dev’essere liberare risorse per la lotta alla povertà e alla disoccupazione giovanile, ma prima ciascuno deve poter vedere che i sacrifici sono suddivisi fra tutti, anche fra i privilegiati. Coinvolgerli è fondamentale. Anche per questo un serio programma di tagli di spesa deve aggredire i costi della politica».
Renzi dice che lo ha fatto: li ha ridotti e ha limitato i compensi dei dirigenti pubblici a 240 mila euro l’anno.
«Ha esteso la limitazione ai compensi introdotta da Monti e Letta, ma non c’è stato quel programma di lotta ai costi della politica che sarebbe stato possibile. Ci sarebbe bisogno di una revisione organica di tutti i comparti statali, la giustizia, le Regioni, gli enti locali, tutti i livelli ministeriali».
Sulla dirigenza pubblica, la riforma Madia non segna passi avanti?
«A livello economico non mi risulta. Anzi, a mio avviso si rischiano passi indietro. Con l’abolizione delle fasce retributive dirigenziali ci sarà un’omogeneizzazione delle retribuzioni, inevitabilmente verso l’alto. Quando mai la si è fatta al ribasso? Io aumento il tuo stipendio, tu aumenti il mio. Un dato non molto noto: i dirigenti pubblici italiani a tutti i livelli, ma soprattutto apicali, sono già molto ben pagati. Per esempio più che nel Regno Unito. A livello ministeriale, locale e della giustizia. Ma non mi risulta sia stato fatto niente».
Le società partecipate pubbliche? Lì si è molto legiferato.
«Lì c’è un’illusione collettiva ancora più forte. Quasi niente della riforma Madia è nuovo. Sono tutti criteri formali, aggirabili e senza mordente. Il vincolo per cui le partecipate devono occuparsi solo di attività proprie della funzione pubblica era già stato espresso in passato, ed è talmente generico che qualunque società potrà sempre dire che lo sta rispettando».
Anche qui esiti gattopardeschi?
«Sì, perché è una riforma tutta basata su pompose enunciazioni generali e su un elenco infinito di casi e sottocasi, ognuno ovviamente con la sua deroga. Per esempio si dice che un ente partecipante non possa ripianare le perdite di una partecipata ‘a meno che tale intervento sia accompagnato da un piano di ristrutturazione’. Quindi basta assumere un consulente e farselo fare. Altri soldi che partono».
Altri esempi?
«Se c’è una perdita per tre anni di fila, si taglia il compenso dei manager. A meno che, ovviamente, la perdita sia “coerente con un piano di risanamento preventivamente approvato”. E via altri piani, altre consulenze. Eppure c’era un modo semplice e senza ostacoli legali per risparmiare: eliminare l’organismo interno di vigilanza di queste aziende, che non serve a niente, e attribuirne i compiti al collegio sindacale. Si sarebbero tagliate 10 mila poltrone, benché con risparmi limitati».
C’è stata una volontà di non cambiare niente?
«Penso ci fosse buona fede. Ma le norme vengono scritte da amministrativisti che ragionano solo in funzione di enunciazioni formali. Non capiscono gli incentivi: se un ente non chiude una società palesemente inutile o impropria, gli taglio i trasferimenti, e vediamo chi vince. Gli amministrativisti invece pensano basti scrivere che una cosa è proibita perché non avvenga più. Il risveglio sarà amaro».
Sulla Rai lei ha lavorato molto. Che pensa della riforma?
«La Rai ha troppi soldi. Se si compara alla Bbc, il costo medio del lavoro per unità di valore aggiunto è molto più alto. Sono molto pagati i dirigenti. L’Italia si vanta di essere un Paese egualitario, ma nel settore pubblico viene remunerato molto bene chi sta in alto e male chi sta in basso, in confronto con gli altri Paesi. Una maestra o un insegnante guadagnano sotto le medie europee, già un dirigente scolastico guadagna più che in Gran Bretagna. Bene: la Rai incorpora questi problemi, più il fatto che rispetto alla Bbc ha un bilancio enormemente più alto per ore di produzione. Tra i 1.600 giornalisti ha ben 600 dirigenti, una percentuale pazzesca».
Pensava che la riforma affrontasse questi problemi?
«Sì. Invece è esclusivamente legalistico-formale: si precisa chi nomina chi. Però poi dal punto di visto dei costi non è cambiato niente, anzi le sono stati dati più soldi: il canone in bolletta ha aumentato enormemente le entrate dell’azienda».
Quella è una forma efficace di lotta all’evasione.
«Stiamo attenti, sulla retorica della lotta all’evasione. Se recuperi un miliardo e lo usi per ridurre le tasse su chi prima pagava tutto, benissimo. Ma se recuperi risorse e le usi per rimpinguare ancora di più la Rai e i suoi dirigenti, a che serve? Il canone in bolletta è l’esempio tipico: il prelievo è stato diminuito di soli dieci euro, in compenso alla Rai sono andate ancora più risorse, anche se è già la più finanziata fra le televisioni pubbliche».
Vuole dire che Renzi era partito bene ma è diventato un politico tradizionale?
«Non so se sia stato intenzionale, non credo. C’è stata superficialità. Per esempio il vecchio direttore generale Rai si era ridotto il compenso a 240 mila euro; ma quando con la riforma della Rai è arrivato il nuovo, se lo è ri-aumentato a 650 mila, ben sopra il suo omologo della Bbc che pure è molto più grande e seguita in tutto il mondo».
Questi sono spiccioli. Ma dove sono i tagli seri da fare nello Stato?
«Non esistono jackpot facili. Ma per esempio i sussidi alle imprese valgono miliardi e miliardi, in molti casi fuori bilancio. Lo Stato non ne ha ancora un censimento, pensi un po’. Un dettaglio: a gennaio hanno persino aumentato i sussidi al cinema da 200 a 500 milioni, e il cinema italiano è il più sussidiato al mondo per euro di valore aggiunto prodotto. Ma perché un povero disoccupato del Sud deve sussidiare i cinepanettoni?».
Al referendum come voterà?
«Voto sì, abolire il bicameralismo è importante. Ma non è vero che così si taglieranno 500 milioni di costi della politica come dicono, perché in quella cifra sono inclusi i 350 delle provincie che erano già state abolite. Purtroppo questo governo ha fatto pochissimo sui costi della politica, e ora cerca di recuperare distorcendo i contenuti del referendum».
Il Corriere della Sera – 4 settembre 2016