Repubblica. Se le si chiede qual è l’esperienza che le ha cambiato la vita, esita qualche istante. I genitori volevano per lei una vita più tranquilla, come quando da ragazza alternava lo studio allo sport (per otto anni è stata capitano della squadra di pallavolo San Giorgio di Mestre). Invece Flavia Bustreo, da Camposampiero (Padova), ha lasciato la provincia e da medico epidemiologo ha lavorato nelle aree più difficili del mondo, tra conflitti ed emergenze umanitarie.
E ora fa fatica a isolare un solo ricordo. «Forse quando con un gruppo di medici arrivammo a Sarajevo alla fine del ‘92» risponde. «C’erano solo i volontari dei Beati costruttori di pace di don Albino Bizzotto. Il resto tutto distrutto. Dormimmo in sacco a pelo in una casa abbandonata. E fummo svegliati il giorno dopo dalle donne della città, che per ringraziarci ci portarono del pane caldo ». Ancora, i due anni come unico medico italiano in Sudan, durante il conflitto, o il destino di morte dei bambini di Bagdad. Oggi è la prima italiana nella storia che potrebbe dirigere l’Organizzazione mondiale della Sanità. Entro domani, infatti, i 34 Paesi dell’Executive board decideranno con voto segreto la rosa dei tre finalisti, da consegnare all’Assemblea mondiale della sanità, che voterà a fine maggio.
Un’altra donna alla guida dopo i dieci anni della cinese Margaret Chan. Lo crede possibile?
«A Ginevra e negli altri uffici delle Nazioni Unite sono tutti uomini, almeno la guida sarebbe bene lasciarla a una donna. E credo che dopo un così lungo periodo di guida asiatica, sarebbe utile che fosse rappresentata l’Europa ».
Lei all’Oms lavora già da sette anni come vicedirettore generale per la salute della famiglia, della donna e dei bambini.
«Sì, ed è un vantaggio, perché conosco i meccanismi complessi dell’organizzazione, e anche i punti deboli».
Ed essere italiana è un vantaggio o un ostacolo?
«Siamo molto apprezzati nel mondo, anche per quello che abbiamo dimostrato di saper fare accogliendo le migliaia di persone arrivate sulle nostre coste. E poi c’è la nostra Costituzione».
In che senso?
«Siamo tra i pochi Paesi al mondo ad avere il diritto alla salute sancito dalla Carta. Diritto universale, per tutti. Così come l’accesso. È vero, ci sono molte differenze tra Regione e Regione, tra Nord e Sud. Ma il nostro sistema sanitario è un’eccellenza di cui non ci rendiamo neanche conto. Basta guardare l’indice di mortalità materna, tra i più bassi al mondo. In alcune aree degli Stati Uniti, nel Bronx per esempio, è uguale a quella di Haiti. Perché non tutti hanno accesso alle cure».
Quale sarebbe la sua priorità
se dovesse farcela?
«Proprio questo: garantire equità nell’accesso alle cure. Non è accettabile che non si possano vaccinare i bambini perché non c’è l’elettricità o che se un parto va male e serve una sala operatoria non c’è sangue a disposizione e nemmeno un chirurgo ».
A proposito di vaccini, in Italia c’è un calo drastico della copertura. Come se lo spiega?
«È la diffidenza tipica dei Paesi ricchi. Io ho quasi 56 anni e la mia generazione non ricorda la gravità della tubercolosi, della poliomielite. Mia madre ha perso suo fratello di difterite, oggi non sappiamo neanche cosa sia. Questo esitare, fomentato da cattiva informazione sui social, è frutto delle nostre condizioni di vita agiate. In Africa i genitori si mettono in fila per ore per far vaccinare i bambini».
Che proposte ha sulle vaccinazioni?
«Servono fondi, non solo dai governi, ma dai privati. Sono vicepresidente del consiglio di Gavi, l’alleanza globale per le vaccinazioni, per accelerare l’accesso ai vaccini dei Paesi poveri. Nei Paesi ricchi invece mi piacciono le campagne con i campioni-testimonial, come quella di Bebe Vio per la meningite. La psicosi cui stiamo assistendo non serve, invece è utile vedere con i propri occhi quali siano gli effetti della malattia».
E nella struttura dell’Oms cambierebbe qualcosa?
«La renderei più agile e veloce: quando è scoppiata l’epidemia di Ebola abbiamo perso sei mesi prima che i Paesi interessati ci fornissero informazioni, e addirittura ammettessero di avere un problema sanitario. Dobbiamo avere una struttura di sorveglianza, allearci con gli operatori che lavorano in queste aree e sono più dinamici. E trovare fondi per gestire le emergenze».
Entrerà nella terna finale dei candidati?
«Spero di sì. Sono orgogliosa di rappresentare l’Italia e credo anche di avere esperienza, capacità operativa e strategica. Insomma , sarei un bravo capitano, come quando giocavo a pallavolo. »
Il Corriere della Sera – 23 gennaio 2017