Luca Fiorin. Adesso è certo: le sostanze chimiche sversate per decenni da un’azienda del Vicentino, inquinando un ampio territorio posto a cavallo delle province di Verona, Vicenza e Padova, costituiscono un rischio per la salute umana. Quello che resta un mistero è se la loro presenza nelle acque che vengono usate per irrigare i campi è, e in che misura, legittimo.
E nemmeno se, e come, possano essere scaricate con gli scarti liquidi dalle attività produttive. Il giorno dopo la conferma che le sostanze perfluoro-alchiliche sono presenti nel sangue delle persone che vivono nell’area contaminata situazione che è stata verificata essere a livelli fra i più alti fra quelli riscontrati sinora in Europa in alcuni Comuni dell’Ovest vicentino, grazie ad un biomonitoraggio che ora verrà esteso anche nel Veronese – sono diventati ancor più di primo piano due aspetti del caso Pfas che non sono certo di poco conto. L’attenzione viene rivolta a due settori economici: l’agricoltura e l’industria. La mancanza di limiti per quanto riguarda le acque di irrigazione, che rischia di mettere in pericolo le produzioni agricole di un territorio votato, e la scarsa chiarezza sui parametri dei reflui produttivi, che continua a rendere problematico l’avvio di azioni di risarcimento danni nei confronti di chi è causa della contaminazione. La complessa vicenda dei Pfas, grazie alla presentazione avvenuta mercoledì a Venezia dei risultati del biomonitoraggio, ha comunque raggiunto alcuni punti fermi. Il primo è sicuramente il fatto che queste sostanze vengono assunte dagli individui principalmente con l’acqua e che rimangono nel corpo per anni. Un dato di fatto i cui danni a lungo termine sulla salute, e cioè che siano fonte di possibili effetti cancerogeni o di altre patologie, ora saranno indagati con uno studio epidemiológico che riguarderà una popolazione di 250 mila cittadini. 72 mila di questi sono residenti in 13 Comuni del Basso veronese (Arcole, Veronella, Zimella, Albaredo, Cologna, Bonavigo, Minerbe, Pressana, Roveredo, Legnago, Boschi Sant’Anna, Bevilacqua e Terrazzo).
L’altra novità importante, poi, è costituita dalla conferma, che non era per nulla scontata, che almeno per l’acqua che bevono uomini ed animali un limite di potabilità, anche se decisamente inusuale, esiste. «L’Istituto superiore di Sanità ha stabilito dei parametri che sono stati validati, attuando una procedura prevista per casi particolari, dal Ministero e che sono vigenti solo entro il territorio veneto», spiegava ieri la dirigente del Settore sanità regionale Francesca Russo, al termine di un vertice dedicato proprio a questo tema. «I nostri acquedotti – precisava – rispettano tali limiti da ancor prima della loro prima proposizione, che risale al gennaio 2014. Limiti che valgono anche per i pozzi e per l’acqua che serve per abbeverare gli animali ed il cui rispetto è in questi casi a carico dei privati». Se anche per le acque superficiali gli standard di qualità ci sono, dal punto di vista della salute i problemi principali potrebbero essere legati all’irrigazione. I dati, per quanto parziali, relativi a controlli sugli alimenti hanno infatti mostrato che essi possono contenere Pfas. Le analisi condotte mesi fa su uova, pesci, bovini, insalata e ortaggi avevano infatti confermato ciò che tutti temevano: le sostanze perflouoro-alchiliche si accumulano negli alimenti che consumiamo e che pure gli animali mangiano
L’Arena – 22 aprile 2016