Sono tutte più infettive, una potrebbe infettare di nuovo chi ha già avuto la malattia, un’altra resistere agli anticorpi monoclonali. Per gli scienziati la prima difesa è il sequenziamento del virus. Ma non ci stiamo lavorando abbastanza
di Giada Giorgi, Open online. Le varianti di Covid-19 continuano a preoccupare e forse anche più di prima. Quando un ente internazionale come l’Ecdc, l’agenzia europea che si occupa di prevenire e controllare la diffusione delle malattie infettive, dichiara un rischio di contagio attualmente a livello «alto/molto alto»m proprio a causa delle varianti, e sollecita gli Stati a prepararsi con vaccini e misure rigorose, il timore è quello di fare pericolosi passi indietro. All’inizio della pandemia in corso, uno dei più grossi problemi per gli scienziati è stato quello di non conoscere a fondo il nemico contro cui combattere, con il conseguente smarrimento della popolazione mondiale. Da allora la ricerca ha fatto molti passi avanti, arrivando non solo a conoscere meglio il virus ma a scoprire alcuni strumenti per combatterlo, primi fra tutti i vaccini. Ma quando il nemico pur di sopravvivere cambia forma, il timore è di nuovo quello di non sapere come affrontarlo e, ancora peggio, quello di vedere vanificati gli sforzi fatti finora.
Secondo quanto riportato dal Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie, citato poco fa, le nuove informazioni raccolte sullo sviluppo di alcune specifiche modifiche del virus hanno complicato la situazione:
«Sulla base delle nuove informazioni, sono 3 le varianti del virus (VOC 202012/01, 501Y.V2 e variante P.1) considerate preoccupanti. Questo a causa di una una maggiore trasmissibilità e al deterioramento delle situazioni epidemiologiche nelle aree in cui si sono recentemente stabilite»
Le 3 varianti che si rafforzano
Per capire meglio il peso delle varianti, bisogna innanzitutto ribadire quanto sia naturale per un virus come SARS-Cov-2 cambiare. Replicandosi di organismo in organismo incappa in errori di “copiatura” del suo genoma, provocando appunto delle variazioni rispetto alla composizione originaria. La maggior parte delle mutazioni emergenti non ha un impatto significativo sulla diffusione, ma la possibilità che una minoranza di esse forniscano al virus un vantaggio nella trasmissibilità, o ancora peggio una resistenza a ipotetici vaccini, è comprovata. Nel caso specifico di Covid-19 sono 3 le varianti che preoccupano l’Ecdc.
Quella “inglese” corre ancora più forte nei contagi
La variante detta “inglese” VOC 202012/01 è stata identificata per la prima volta nel sud del Regno Unito a dicembre 2020, ma sembra in realtà essere stata in circolo già dal mese di settembre. Da allora è diventata la mutazione predominante in tutto il Paese. Gli ultimi dati parlano di 16.800 casi nel Regno Unito, circa 2.000 casi in 60 Paesi del mondo, 23 in Europa, con un nuovo allarme anche in Italia. Dieci contagi di variante inglese sono stati registrati nelle ultime ore tra Mantova e Cremona su pazienti rientrati dal Regno Unito a metà dicembre. Quello che per la variante “inglese” preoccupa di più è il potenziale di trasmissibilità.
Come spiegato dall’Ecdc «gli studi preliminari indicano che non ci sono prove che VOC 202012/01 sia associata a una gravità di infezione significativamente diversa o che colpisca in modo sproporzionato determinati gruppi di età più dei precedenti virus circolanti». Dal punto di vista immunologico cioè non sembrano per ora esserci problemi: sia gli anticorpi di chi si ammala che quelli prodotti dal vaccino riescono a riconoscerla.
Rispetto alla diffusione invece le cose sono andate peggiorando. Nel caso specifico del Regno Unito la pressione sul sistema sanitario verificatasi dalla metà di dicembre 2020 è diventata più pesante di giorno in giorno, mentre il tasso di mortalità giornaliera per Covid registrato fino a gennaio 2021 è il più alto dall’inizio della pandemia. Nella capitale poi il totale delle persone infettate dalla variante ha da poco toccato il record del 3% degli abitanti complessivi: tra il 10 e il 16 gennaio 1 londinese su 35 è risultato positivo alla mutazione VOC 202012/01, la quota più alta finora raggiunta nel Paese. Come fa sapere l’ente di controllo europeo la situazione non è migliore in Irlanda, dove la circolazione della variante è stata identificata di recente: «L’aumento del numero di casi e dei ricoveri preoccupa, con una pressione crescente sul sistema sanitario e l’implemento da parte del governo di misure restrittive sempre più rigorose». Stessa storia in Danimarca, sotto regole severe almeno fino a febbraio.
Quella “sudafricana” fa paura ai monoclonali
La variante “sudafricana” o 501Y.V2. Identificata per la prima volta in Sud Africa nel dicembre 2020 , ora è la causa principale di contagi sul territorio, con un ritmo di diffusione anche superiore alla mutazione inglese. L’effetto comprovato anche di questa mutazione del virus è dunque la maggiore trasmissibilità. Molti ricercatori temono la 501Y.V2 anche per via di alcune sue ulteriori mutazioni, indicate con le sigle E484K e K417N, che hanno mostrato in laboratorio di ridurre l’impatto degli anticorpi monoclonali, sempre più accreditati come nuova frontiera di cura per Covid-19. Dal Sudafrica la mutazione ha corso: al 19 gennaio 2021, 501Y.V2 è stata registrata in 23 Paesi del mondo, 10 nell’Unione europea, con 27 casi. Con Israele e Regno Unito che, a differenza degli altri Stati, segnalano una presenza non legata a casi di viaggiatori rientrati.
Quella “brasiliana” aumenta le reinfezioni
La variante “brasiliana”, o P.1, isolata la prima volta in Giappone in quattro persone rientrate dal Brasile, era stata identificata fino a qualche ora fa soltanto nel Paese del Sud America e nei viaggiatori tornati in Corea del Sud e Giappone. L’allarme nelle ultime ore è arrivato però dalla Germania: un caso di variante brasiliana sarebbe stato registrato per la prima volta nel Paese, con dettagli ancora da conoscere. Intanto a Manaus, capitale dell’Amazzonia, si sta registrando un incremento di casi Covid-19 legati alla variante che testimoniano non solo una fortissima infettività ma una maggiore capacità di recidive e reinfezioni nelle persone che la contraggono. A questo proposito anche in Italia lo stesso Galli ha invitato gli scienziati a studiare di più una variante «molto tosta». Secondo gli esperti, nel caso di Manaus il virus avrebbe sviluppato la mutazione giusta per tornare a essere in grado di colpire non solo quelli che non aveva ancora infettato, ma in qualche caso anche quelli che si erano già ammalati. Gli scienziati si riservano al momento di studiare ulteriormente i casi e di monitorare anche la resistenza della variante ai vaccini disponibili. Ma per fortuna su questo fronte le verifiche al momento sembrano non aver destato preoccupazioni.
In Francia l’ombra di una quarta mutazione
Intanto in Francia il pericolo è che si stia diffondendo una mutazione non identificabile con nessuna delle 3 varianti ormai conosciute e che sia altrettanto pericolosa. Nell’ospedale di Compiègne, a nord di Parigi, sono 160 i pazienti contagiati e la variante “inglese”, subito sospettata, è stata esclusa dalle analisi. Analogo fenomeno è stato registrato nel sud-ovest, nel centro e nell’est dove in diversi ospedali si registra una media di contagi molto più alta di quella nazionale. Nell’ospedale di Compiègne, oltre ai degenti, si sono contagiati 75 membri del personale, medico e paramedico, portando il totale dei contagi a cifre toccate soltanto nella prima ondata. La direttrice dell’ospedale, Catherine Latger, ha chiesto nuove analisi che chiariscano la presenza di possibili nuove varianti non identificate».
L’importanza (sottovalutata) del sequenziamento del virus
Di fronte alle mutazioni e alla comparsa di nuove varianti, la necessità di sequenziare, e cioè di controllare periodicamente, la natura del virus si rivela fondamentale. A questo proposito c’è la banca dati Gisaid, una piattaforma internazionale che raccoglie i dati genomici dei virus influenzali e del coronavirus. Secondi i numeri forniti da Gisaid su poco più di 400.000 sequenziamenti effettuati in tutto il mondo ed archiviati sulla banca al 21 gennaio, oltre 175.000 sono stati effettuati in Gran Bretagna, poco meno di 80.000 negli Usa. L’Italia ne registra poco meno di 2.500, non lontano dalla Francia con 3.400 e dalla Germania, 3.700. Va da sé che l’attuale monitoraggio del genoma del virus non è ancora sufficiente rispetto all’allarme da dover fronteggiare.
Per l’Italia una petizione online su Change.Org rivolta al Ministero della Salute è stata lanciata dall’organizzazione Biologi per la scienza al fine di istituire una rete di laboratori per il sequenziamento a tappeto del virus. «Ognuno dei test molecolari attualmente in commercio si basa su diversi geni e diverse sequenze del virus» spiega il gruppo di esperti «e la diffusione di nuove varianti potrebbe renderli meno efficaci nell’individuare i positivi». Non ultimo aspetto da tutelare anche quello dei vaccini. «Per assicurarsi che la campagna vaccinale si realizzi nel suo pieno potenziale, è auspicabile la conoscenza dell’intera gamma di varianti presenti sul territorio nazionale per evitare la diffusione di quelle che eventualmente risultassero capaci di eludere la risposta immunitaria generata dai vaccini».
«L’Europa si muova ora»
Sulla rivista scientifica Lancet gli scienziati invocano per l’Europa un’azione condivisa: «Gesti coordinati e decisioni sincronizzate», scrivono, «solo così si può sperare di ritardare l’ulteriore diffusione delle varianti». I ricercatori delle università europee ora parlano di misure che non bastano più. «Non stanno riducendo a sufficienza la diffusione del coronavirus, dando spazio a nuove varianti» continuano, sottolineando come i dati sulla maggiore trasmissibilità si stanno traducendo nei singoli Paesi in un aumento dell’indice Rt.
Se le ulteriori verifiche sul campo confermassero ancora a lungo la diffusione dei virus mutati, i Paesi si troverebbero ad affrontare un’altra ondata con lo stabilirsi di una variante però più contagiosa. «A quel punto diventerà sempre più difficile riuscire anche a tenere conto dei casi». Le iniziative esclusivamente locali secondo gli esperti potrebbero essere ora controproducenti: «Più durano le restrizioni, meno efficace diventa il loro impatto sulle persone e il rispetto che decidono di averne». Una strategia condivisa e in tempi brevi è la chiave per far fronte alle nuove armi del virus. La stessa Ecdc appellandosi agli Stati europei ha invitato a misure condivise anche al fine di scongiurare il pericolo che col tempo riescano a svilupparsi varianti che sfuggano al vaccino esistente.