Ticket stellari e tempi di attesa troppo lunghi stanno spingendo sempre più connazionali – oltre 12 milioni – verso gli operatori della sanità privata
Italiani in fuga dal Servizio sanitario nazionale. Ticket stellari e tempi di attesa troppo lunghi stanno spingendo sempre più connazionali – oltre 12 milioni – verso gli operatori della sanità privata. Che si leccano i baffi. Secondo le stime che emergono dal documento conclusivo dell’indagine conoscitiva sulla sostenibilità economica del Ssn, condotta dalle commissioni Bilancio e Affari Sociali della Camera, la spesa privata ha sfondato il muro dei 30 miliardi l’anno. Per l’esattezza 30,3 mld, tra farmaceutica, diagnostica e assistenza, che – come si legge nel documento – costituiscono «una percentuale rilevante della spesa sanitaria complessiva». Una spesa ingente che – osservano i deputati – «pur non collocandosi su un livello non dissimile da quella di altri Paesi europei, è nel nostro Paese quasi per intero “out of pocket”, mentre altrove è in buona parte intermediata da assicurazioni e fondi». L’indagine della Camera svela anche i motivi di questa emigrazione di pazienti dal pubblico al privato: «È stato rilevato – si legge nel documento – come l’applicazione dei ticket stia di fatto escludendo le fasce economicamente più deboli della popolazione dall’accesso alle prestazioni sanitarie, in particolare a quelle di specialistica e diagnostica». Questa fotografia trova conferma nei dati rilevati dal Censis. Secondo una recente ricerca dell’istituto sul ruolo della sanità integrativa, sono infatti sempre di più gli italiani che pagano di tasca propria i servizi sanitari che il pubblico non garantisce più: nel 2013 la spesa sanitaria privata è infatti aumentata del 3% rispetto al 2007. E nello stesso arco di tempo quella pubblica è rimasta quasi ferma (+0,6%).
I numeri
Secondo il Censis, gli italiani sono costretti a scegliere le prestazioni sanitarie da fare subito a pagamento e quelle da rinviare oppure non fare. Così, crolla il ricorso al dentista a pagamento (oltre un milione di visite in meno tra il 2005 e il 2012), ma nello stesso periodo aumentano gli italiani che pagano per intero gli esami del sangue (+74%) e gli accertamenti diagnostici (+19%). Ormai il 41,3% dei cittadini paga per intero le visite specialistiche. Cresce anche la spesa per i ticket, sfiorando i 3 miliardi di euro nel 2013: +10% in termini reali nel periodo 2011-2013. Insieme alla spesa cresce anche il numero delle persone che si rivolgono al privato, secondo gli ultimi dati del Censis 12,2 milioni di italiani. La ragione fondamentale è che nel pubblico bisogna aspettare troppo tempo per accedere alle prestazioni, come dichiarato dal 61% di coloro che ricorrono alla sanità privata. Altre motivazioni sono per il 33% la possibilità di scegliere il medico di fiducia e per il 18,2% «se paghi vieni trattato meglio», mentre il 15% fa riferimento all’indicazione di una persona di fiducia. La fuga nel privato riguarda soprattutto l’odontoiatria (90%), le visite ginecologiche (57%) e le prestazioni di riabilitazione (36%). Ma il 69% delle persone che hanno effettuato prestazioni sanitarie private reputa alto il prezzo pagato e il 73% ritiene elevato il costo dell’intramoenia.
Ticket alti
Uno scenario che incide sul giudizio che gli italiani hanno del Ssn. A finire nel mirino è soprattutto il costo dei ticket. Secondo quanto rilevato dagli esperti del Censis, il 50% degli italiani ritiene che il ticket sulle prestazioni sanitarie sia una tassa iniqua, il 19,5% pensa che sia inutile e il 30% lo considera invece necessario per limitare l’acquisto di farmaci. Il 56% dei cittadini ritiene troppo alto il ticket pagato su alcune prestazioni sanitarie, mentre il 41% lo reputa giusto. Si lamentano di dover pagare ticket elevati soprattutto per le visite ortopediche (53%), l’ecografia dell’addome (52%), le visite ginecologiche (49%) e la colonscopia (45%). Molto diffusa è poi la percezione di una copertura pubblica sempre più ristretta: il 41% degli italiani dichiara che la sanità pubblica copre solo le prestazioni essenziali e tutto il resto bisogna pagarselo da soli, per il 14% la copertura pubblica è insufficiente per sé e la propria famiglia, mentre il 45% la ritiene adeguata per le prestazioni di cui ha bisogno. In questa cornice spicca il dato relativo alla sanità integrativa. Il Censis stima in 6 milioni gli italiani che hanno aderito a un fondo sanitario integrativo. Considerando anche i loro familiari, si sale a circa 11 milioni di assistiti. Pochi, rispetto a quanto si registra in altri Paesi europei. Secondo il recente rapporto «Welfare, Italia. Laboratorio per le nuove politiche sociali» di Censis e Unipol, «l’Italia resta una delle poche economie avanzate in cui la spesa sanitaria “out of pocket” intermediata – vale a dire gestita attraverso assicurazioni integrative o strumenti simili – si ferma a una quota molto bassa: appena il 13,4% del totale della spesa sanitaria privata, a fronte del 43% della Germania, del 65,8% della Francia, del 76,1% degli Stati Uniti».
Boom dell’intramoenia
Oltre alla sanità privata, si assiste anche a un boom dell’intramoenia. Sempre più italiani vi fanno ricorso per curarsi. Sfiniti da liste d’attesa troppo lunghe e da ticket comunque salati, molti, al momento di sottoporsi a una visita specialistica o a un semplice esame diagnostico, ricorrono a prestazioni erogate al di fuori del normale orario di lavoro dai medici di un ospedale, i quali utilizzano le strutture dell’ospedale stesso a fronte del pagamento da parte del paziente di una tariffa. Secondo gli ultimi dati del Censis, è pari a quasi il 12% la quota di coloro che si rivolgono più all’intramoenia che al pubblico: oltre il 14% nella fascia d’età tra i 30 e i 45 anni, con punte del 17% tra gli abitanti del Sud e delle Isole. Analizzando l’indagine a livello territoriale, la frequenza con la quale si ricorre all’intramoenia è aumentata per il 10% nel Nord-Ovest; per il 3% nel Nord-Est; per il 12,8% in Centro; per il 17,2% nel Sud e nelle Isole. Il ricorso all’intramoenia, più che una scelta, sembra però essere una necessità. La fotografia scattata dall’ultimo Rapporto Pit-Salute di Cittadinanzattiva-Tribunale diritti del malato sembra dire questo: oltre il 15% dei cittadini segnala infatti il «necessario ricorso all’intramoenia per potersi curare», pur percependo tale soluzione come una «vera ingiustizia». Spesso infatti, a fronte di lunghe attese per esami o visite specialistiche, vengono proposte soluzioni in intramoenia in pochissimo tempo.
Le segnalazioni
Ecco due tra le migliaia di segnalazione giunte al Tribunale dei diritti del malato: «Per prenotare una risonanza magnetica presso la Asl di Civitanova – scrive un paziente – mi hanno prospettato come tempo di attesa novembre, e siamo a marzo. Privatamente, pagando 139 euro, tempo di attesa massimo una settimana». E ancora: «Mia figlia ha necessità di effettuare una visita dermatologica perché la pediatra ha suggerito di far controllare un neo sospetto. Mi sono subito adoperato – scrive un papà – per prenotare la visita, ma l’attesa era di 11 mesi. Per curiosità ho provato a prenotare la visita in intramoenia presso il Cup del San Gallicano e l’operatrice mi ha risposto che, se volevo, potevano farla già in quel momento, ma il costo era di 110 euro. Non ho parole». Un’altra testimonianza riguarda un paziente sottoposto di recente a un intervento alla cataratta in un ospedale pubblico. Una volta dimesso, sarebbe stato invitato a eseguire la visita di controllo direttamente nello studio privato del medico, con pagamento delle prestazione (oltre 100 euro). La figlia del paziente chiede al Tdm se sia legittimo questo comportamento del medico, anche perché il padre gode di esenzione. Un’altra segnalazione riguarda una ragazza che ha dovuto fare i conti con una reazione allergica. Il medico di pronto soccorso, dopo le prime valutazioni, le consiglia di effettuare immediatamente esami di approfondimento, ma prenota presso un laboratorio privato, sottolineando l’urgenza. La paziente segue l’indicazione ma poi viene a sapere dal proprio medico di famiglia e da uno specialista che gli esami consigliati e fatti in privato potevano essere svolti anche successivamente. La paziente chiede al Tdm se può ottenere un rimborso di quanto speso.
Una strana visita
A rivolgersi al Tdm è anche una signora alle prese con un problema ginecologico. «Nel mese di dicembre – scrive – ho prenotato, presso l’ospedale di Careggi (Firenze) e dietro prescrizione medica, una visita chirurgica plastica per un problema di ipertrofia delle piccole labbra che mi crea molti fastidi sia nella normale vita quotidiana sia durante i rapporti intimi. Appena entrata in ambulatorio la dottoressa, senza nemmeno visitarmi e quindi senza poter verificare l’entità e la gravità del mio problema, mi dice che questi interventi non li fa in ospedale ma in privato, perché le liste di attesa vanno dai 2 ai 3 anni». «Solo alla fine – denuncia la signora – dopo avermi spiegato come contattarla privatamente e come si sarebbe svolto l’intervento, la dottoressa si è degnata di ”guardarmi” di sfuggita per pochi secondi (giusto per dare un senso alla visita, sue testuali parole). Infine mi ha assicurato che comunque mi avrebbe iscritta in lista. Solo dopo, però, ho notato che nel referto aveva indicato: intervento non eseguibile in regime di Ssn».
Le cliniche private
Ma quante sono le cliniche private in Italia? Se ne contano circa 600. Di queste, solo 64 – circa il 10% – non sono accreditate col Servizio sanitario nazionale. È quanto emerge dai dati della Direzione generale del sistema informativo e statistico del Ministero della Salute, che scatta una fotografia sul mondo delle strutture private (accreditate e non) aggiornata al 2011. Strutture che fanno capo a gruppi noti e prestigiosi, tra cui il Gruppo San Donato, che fa capo alla famiglia Rotelli, con strutture in Lombardia ed Emilia-Romagna; il gruppo GVM Care & Research di Ettore Sansavini con strutture distribuite su tutto il territorio nazionale – da Torino ad Agrigento -; il Gruppo Giomi di Emmanuel Miraglia, presente con le sue strutture nel Veneto, in Toscana, nel Lazio, in Calabria e in Sicilia. Analizzando la tabella nel dettaglio, un dato su tutti salta agli occhi: circa la metà delle strutture private attive in Italia – 266 su 589 – si trova in quattro regioni, cioè Lombardia (72), Lazio (65), Campania (65) e Sicilia (64). Un altro aspetto che emerge è quello relativo alle (poche) strutture non accreditate col Ssn: solo 64. Di queste, circa la metà (29) si trova nel Lazio. Altre 12 strutture “svincolate” dal servizio pubblico si contano in Lombardia. Per il resto, nelle altre regioni, le Case di cura private sono quasi tutte accreditate. In Campania solo 5 strutture su 65 non sono legate al Ssn. In Sicilia, invece, le 64 case di cura private sono tutte accreditate.
«Risorsa importante»
A lavorare in questo tipo di strutture sono circa 15mila dipendenti. Secondo i dati forniti dall’Associazione italiana ospedalità privata (Aiop) – che rappresenta 500 case di cura, con oltre 53mila posti letto di cui 45mila accreditati con il Ssn – le persone operanti nelle strutture associate sono 14.902, di cui 4.696 medici, 20.032 infermieri, 5.853 tecnici, 9.010 ausiliari socio-sanitari e 4.680 assistenti. A sottolineare l’importanza e il ruolo svolto dalle strutture sanitarie private è il presidente dell’Aiop, Gabriele Pelissero: «In Italia il 25% delle prestazioni ospedaliere è coperto dall’ospedalità privata, che pesa soltanto sul 15% della spesa sanitaria. Non sono io a dirlo, ma è la Corte dei Conti. I numeri dimostrano che siamo una risorsa molto importante per il Paese, in quanto parte integrante ed efficiente del Ssn. Rappresentiamo una grande opportunità per poter garantire, anche in futuro, un Servizio sanitario nazionale sostenibile e capace di dare ai cittadini prestazioni di elevata qualità». (Fonte: Adnkronos Salute)
23 luglio 2014