Mariano Maugeri. Il Veneto è sommerso da un’overdose di parole. Mai si era vista una campagna elettorale così infarcita di slogan e una sequenza impressionante di incontri con il mondo delle professioni. Il policentrismo veneto ci ha messo del suo, con ogni singola associazione o ordine professionale che ha preteso e ottenuto un incontro, spesso a porte chiuse, con i candidati alla presidenza.
Parole quasi sempre parlate, raramente scritte. Perché, a dispetto del profluvio di promesse, i programmi appaiono contaminati da un centralismo regionalista che appesantisce l’apparato elefantiaco di una regione, almeno sulla carta, liberale e federalista.
L’innovatore è senza dubbio Luca Zaia, il governatore in carica, inventore del programma a puntate. Prima puntata il 12 maggio: a nemmeno tre settimane dal voto, Zaia presenta quello che ai tempi della Dc si sarebbe chiamato il “preambolo”, tutto centrato sul taglio dei costi della politica. Seconda puntata, dedicata alla sanità, il 16 maggio. Terza e ultima puntata («nove capitoli in totale», precisa il suo ufficio stampa) a ruota.
Forse è un po’ tardi, il 31 maggio si vota, ma Zaia è in buona compagnia. Flavio Tosi, suo amico-nemico, ha illustrato le 30 paginette del suo programma elettorale all’alba del 9 di maggio. La sua lista è d’impronta liberale e popolare, ma alla voce “società partecipate”, uno dei costosissimi carrozzoni delle Regioni, le teste d’uovo tosiane scrivono: «Implementare gli strumenti di finanza regionale, a partire da Veneto sviluppo», a settori come il turismo, il commercio, i servizi. Mungere le mammelle della Regione è una tentazione alla quale è difficile sfuggire.
Altra parola oggetto di uno dei tanti scontri tra Zaia e Tosi è zero. Non è lo spot della Coca Cola, ma della sanità veneta, «la prima in Italia» dice orgoglioso il governatore uscente. Solo che lo zero ognuno se lo gioca come vuole. Tosi vuole il ticket zero per le prestazioni, magari tagliando i dirigenti della sanità, Zaia invece propone l’azienda zero del Veneto al posto delle 22 unità locali socio-sanitarie sulle quali lo infilzò il premier Matteo Renzi («ne faccia almeno sette, una per provincia!»).
Battute a parte, appare altamente improbabile che il premier replichi il 31 di maggio la marea rossa delle Europee di un anno fa. Stavolta il grande nemico da battere sarà l’astensionismo. Il politologo Paolo Feltrin ha calcolato, ma è una previsione ottimistica, che almeno il 45% degli elettori rimarrà a casa (o in spiaggia). «Prospettive ribaltate rispetto alle regionali del 2010, quando il partito del non voto (35%) raccoglieva esattamente gli stessi consensi della Lega Nord» sottolinea Marco Almagisti, docente di Scienza politica a Padova. Inutile girarci attorno. Il Veneto rappresenta a suo modo un laboratorio in cui si fronteggiano il progetto nazionalista di Matteo Salvini e quello autonomista di Luca Zaia. A parole i due leader leghisti vanno d’amore d’accordo, in realtà ai veneti non piace per nulla la discesa al Sud del segretario federale.
A sinistra, il morale è tutt’altro che alle stelle. L’apparizione di Matteo Renzi a Mestre il 3 maggio non ha aiutato la Moretti: «Queste regionali finiranno sei a uno per il Pd», ha detto il premier, dando per scontata la sconfitta in Veneto e la vittoria in tutte le altre regioni. «Ma era una battuta» ha corretto qualche giorno dopo la ministra Maria Elena Boschi calando a Padova per sostenere la candidata del Pd. La Moretti sul programma è stata tra le più diligenti: c’è un sito internet dedicato per tempo alla questione, con l’elencazione, e relativo titolo, di una serie di misure da adottare. Alla voce partecipate regionali, per esempio, la Moretti scrive: basta poltronifici, ridurrò le aziende partecipate e i loro consigli di amministrazione. E spiega: «Attualmente la Regione Veneto controlla 98 partecipate, molte con bilanci in rosso, che gravano sulle spalle dei contribuenti». Ci voleva tanto? A poco è valso il Manifesto del nuovo manifatturiero presentato dagli industriali all’inizio della campagna elettorale per stanare i candidati sui temi chiave dello sviluppo. Tutti d’accordo, a parole. Meno d’accordo sono quei rari imprenditori che si sono presi la briga di comparare i programmi elettorali. Dice uno di loro che vuol rimanere anonimo: «Molti candidati hanno sprecato tempo e carta per spiegare come far lavorare i politici, cioè loro stessi, e tagliarsi i relativi stipendi. Un paradosso. Il resto, chi più, chi meno, assomiglia ai predicozzi di chi si candida a guidare un piccolo Comune e non una delle regioni più dinamiche d’Europa».
No vision, insomma. Irrorata da dosi massicce di dirigismo. Jacopo Berti dei Cinquestelle appare come il vero erede delle lenzuolate programmatiche di scuola democristiana: 126 pagine d’impronta statalista che vagheggiano la nascita di una banca pubblica, la Brv, la Banca regionale del Veneto. Un doppione di Veneto sviluppo, come minimo, dove le banche detengono già il 49 per cento. E che accadrebbe se ogni Regione si facesse la sua banca, sommandola alle costosissime finanziarie di cui si fregia il portafoglio delle partecipate di ognuno dei venti staterelli italiani?
Nel dubbio, i più minimalisti sono stati gli indipendentisti di Alessio Morosin. Una sola riga di programma: subito il referendum popolare per l’autodeterminazione.
Il Sole 24 Ore – 22 maggio 2015