Un ronzio. Da un ago esce un filamento di gelatina. «Questa stampante 3D crea un modello di linfonodo di 5 millimetri. Vi aggiungiamo cellule di leucemia poi farmaci». In laboratorio si può così mimare la battaglia dell’organismo umano contro un tumore. Cristina Scielzo, responsabile dell’unità di ricerca su leucemie e modelli 3D al San Raffaele di Milano, stima: «Studieremo l’efficacia dei nuovi farmaci sul nostro organo stampato, probabilmente dimezzando le cavie necessarie».
Da un lato c’è la ricerca di terapie sempre più efficaci. Dall’altro l’esigenza di risparmiare gli animali usati come cavie. Il loro numero sta diminuendo, ma non quanto vorremmo. In Italia erano 777 mila nel 2010 e 553 mila nel 2018, ultimo anno con dati ufficiali, tra invertebrati, pesci e roditori. In Europa si è passati dagli 8,8 milioni del 2018 ai 7,9 milioni del 2020. Il 70% sono topi. Il 25 maggio la Commissione europea valuterà la petizione di 1,2 milioni di cittadini che chiedono una scadenza per l’uso degli animali nella cosmesi (già vietato in Europa) e per la ricerca scientifica. L’anno scorso gli Usa hanno approvato l’Fda Modernization Act che mira a sostituire, quando possibile, le cavie con i metodi alternativi per i nuovi farmaci. Richiesta analoga è stata avanzata nel 2021 dal Parlamento europeo. «La sofferenza degli animali non piace a nessuno. Ma l’obiettivo zero cavie per ora è irraggiungibile. Ricordiamo il caso del talidomide. Non possiamo permetterci di usare sull’uomo farmaci non sperimentati sugli animali », dice Giuliano Grignaschi, responsabile del settore benessere animale all’università di Milano e portavoce dell’associazione di divulgazione della scienza Research4Life.
Gradualmente però stampanti 3D, modelli su computer, organi su chip e organoidi stanno prendendo piede nei laboratori. I loro obiettivi sono sia migliorare la ricerca sia ridurre le cavie. Prendiamo lo strumento di Giovanni Tonon, che al San Raffaele dirige il laboratorio di genomica del cancro e il centro di “scienze omiche”. Su una piastra poco più grande di una mano ha inserito 384 organoidi di tumore del colon con metastasi al fegato. Ognuno è un cancro in miniatura, prelevato da un vero paziente e fatto crescere in laboratorio fino alle dimensionidi alcuni millimetri. «La piastra con gli organoidi di tumore ci permette di testare 384 farmaci o combinazioni di farmaci insieme per trovare in pochi giorni la formula più efficace », spiega Tonon. Farlo con le cavie? «Impensabile. E una malattia come il tumore non te ne darebbe il tempo». Gli organoidi sono tessuti semplici. «Ma hanno il vantaggio di essere pur sempre tessuti umani, non animali», aggiunge Oronzina Botrugno, specializzata nella ricerca di nuovi farmaci contro il cancro.
Se studiare un organo alla volta sembra poco, Diego Albani, responsabile dell’Unità di genetica dellemalattie neurodegenerative al Mario Negri, col Politecnico di Milano, collega tessuti diversi come intestino, fegato e cervello usando gli organi su chip. Su una piastra ci sono varie vaschette, ognuna con le cellu le di un organo. Dei tubicini le collegano, a mimare l’unicum dell’organismo. «Li usiamo per fare ricerca di base e sperimentare nuovi trattamenti. Abbiamo buone probabilità di intercettare un farmaco tossico a questo stadio, senza farlo procedere alla sperimentazione animale». Poi c’è lo studio delle malattie del cervello: «Vogliamo capire come i batteri dell’intestino influenzano l’infiammazione del cervello, causando l’Alzheimer. Sono processi che nell’uomo durano decenni e non riusciremmo a studiarli negli animali».
Una pubblicazione scientifica o l’approvazione di un farmaco richiedono i test sulle cavie. Ma quel che avviene a monte, con i metodi alternativi, sta vivendo una rivoluzione. «Non parlerei di metodi alternativi », precisa Luca Guidotti, vicedirettore scientifico, professore di patologia e responsabile dello stabulario del San Raffaele. «È più corretto il termine metodi complementari. Abbiamo 100 mila chilometri di capillari nel corpo umano e nessuno può riprodurne la vera funzione in vitro. I test sugli animali non possono essere cancellati o dovremmo fare a meno di nuovi farmaci».
Non è solo la ricerca medica ad aver bisogno di cavie. «Pensiamo ai milioni di sostanze sconosciute cui siamo esposti», fa notare Emilio Benfenati, direttore del Dipartimento di ambiente e salute al Mario Negri. «Ce ne sono 25 mila registrate in Europa. Altre 1.500 di origine vegetale sono arrivate dai commerci col mondo. I cosmetici ne usano 40 mila. Solo per una piccola percentuale abbiamo dati di tossicità. Quante cavie dovrebbero esistere per analizzarle tutte? Usiamo software per un primo screening». Benfenati disegna una molecola sullo schermo. «Posso studiarla senza sintetizzarla. Vedo qui un elemento che altera il Dna. Questa molecola è pericolosa. Non arriverebbe ai test sulle cavie». Anche perché il topo è denaro, e per risparmiarne la vita diversi istituti hanno “cliniche per le cavie”. Nello stabulario del San Raffaele è al lavoro una risonanza magnetica da 7 tesla (quelle umane arrivano a 3), Tac, Pet ed ecografi adatti ai roditori. Sembra di essere in un ospedale delle bambole. «Una risonanza così costa 3 milioni», precisa Guidotti. Tante sono le vite animali che risparmia. In passato per studiare la progressione di un tumore si uccidevano e analizzavano i topi ai vari stadi della malattia. «Oggi i radiologi del San Raffaele che la mattina esaminano gli uomini, il pomeriggio lavorano con gli animali, senza bisogno di sacrificarli», spiega Guidotti. «Abbiamo 10mila esemplari con il Dna ingegnerizzato per simulare 300 malattie dell’uomo. Il loro valore è almeno 50 milioni. Se un’infezione pericolosa raggiungesse i nostri animali perderemmo la loro vita e il lavoro di 2.000 ricercatori».
Repubblica
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