Il re dei formaggi si vende a 7 euro al chilo, ma ai produttori ne costa 9. E nel Consorzio di tutela è scontro fra piccoli e grandi caseifici. Gratta gratta i redditi e i consumi uno dei massimi simboli del made in Italy in tavola va in crisi nera. Lo sapesse Boccaccio che a Bengodi aveva immaginato montagne di Parmigiano (Reggiano) ci scriverebbe un’altra novella per mettere in ridicolo i nostrani governanti.
Hanno una buona parte di colpe in questa crisi che si apre a meno di tre mesi dall’Expo dove noi dovremmo esporre i nostri gioielli alimentari. Ci vorrebbe una Syriza del cacio per aggiustare le cose perché nell’ex triangolo d’oro del latte (Bologna-Parma-Mantova) si guarda con preoccupazione al futuro anche o soprattutto per la politica europea che ha dapprima depresso i consumi italiani, poi imposto le sanzioni a Putin determinando una caduta verticale dell’esportazione in Russia del formaggio e infine con l’abolizione bruta delle quote latte crea un caos nella produzione. Sabato prossimo il Consorzio del Parmigiano Reggiano s’interroga a Soragna sul rischio che senza un’autodisciplina ci sia maggiore produzione di latte – e di minore qualità: inaccettabile per chi fa Parmigiano Reggiano – e più volatilità dei mercati.
Della crisi del Parmigiano Reggiano ha parlato in audizione al Senato Giuseppe Alai – presidente del Consorzio – spiegando che manca sostegno all’export, il dumping sui prezzi sta ammazzando i piccoli allevamenti e i caseifici di montagna. Certo la crisi è prima di tutto determinata dalla caduta dei consumi, crollati del 6% in un solo anno che si è portato dietro un ulteriore crollo del prezzo all’ingrosso dopo tre anni continui di ribassi. Le ultime partite di Parmigiano Reggiano in questo mese sono state trattate a 7 euro al chilo: una miseria. I costi di produzione, considerando che per fare una forma ci vogliono 600 litri di latte e una stagionatura minima di un anno, si aggirano attorno ai 9 euro al chilo. Significa vendere sottocosto. Ma un elemento di fragilità del sistema – che ha resistito perfino al terremoto del 2012 quando interi caseifici persero tutta la produzione – è data dalla eterogeneità del comparto. Sei caseifici -per lo più cooperativi – producono da soli 360mila forme tante quante ne fanno i 130 caseifici di montagna e che le stalle di montagna producono 2.900 quintali di latte rispetto ad un dato medio di 4.900 e le cinque stalle maggiori da sole fanno tanto latte quanto 750 allevamenti minori.
Ma i colossi del Parmigiano Reggiano sono quelli che hanno accettato i prezzi stracciati. Così come hanno accettato che il loro formaggio diventasse un prodotto civetta della grande distribuzione mettendo fuori mercato i piccoli caseifici che stagionano fino a quattro anni. Ma c’è un altro elemento di debolezza del Parmigiano Reggiano che è in qualche modo «colpa» dell’Europa. Le regole di Basilea 3 che fissano la patrimonializzazione delle banche hanno reso meno agevole il credito su pegno. Si tratta di questo: il produttore affida alla banca le forme da stagionare, ottiene un po’ di soldi e poi ad affinamento concluso riscatta il formaggio. Così per secoli il sistema si è autofinanziato, ma ora anche questa opportunità è scemata. Basti dire che il più grande magazzino su pegno è del Monte Paschi di Siena. Le ipotesi sul tappeto sono due: diminuire la produzione del 5%, ma i grossi spalleggiati anche da alcune centrali agricole non ci stanno, oppure tentare di rianimare l’export che mangia circa un milione di forme cercando di rimpiazzare le 200mila che non si possono più dare a Putin. Qualcuno esasperato propone di forzare il blocco passando per l’Ucraina. Fregandosene della comunità. Del reso il Parmigiano Reggiano lo fanno gli extracomunitari: gli indiani Sik che da quaranta anni sono i migliori e quasi unici mungitori. Ma anche questa buona integrazione rischia d’essere spazzata via. In attesa di una Syriza del cacio!
Libero – 27 gennaio 2015