Il tema sembrava finito sotto traccia. Ma a ritirarlo fuori ci ha pensato il Pdl nell’ultima riunione della cabina di regia, giovedì. Un intervento choc per abbattere il debito pubblico, arrivato in aprile alla cifra monstre di 2.041,3 miliardi di euro, quasi il 130% del prodotto interno lordo.
Lo hanno chiesto al premier Enrico Letta il vicepresidente del Consiglio, Angelino Alfano, e il capogruppo del Pdl alla Camera, Renato Brunetta, ma anche il capo dei senatori di Scelta civica, Gianluca Susta, aggiungendovi una postilla sulla necessità di riprendere con vigore privatizzazioni e liberalizzazioni. E anche il capogruppo del Pd al Senato, Luigi Zanda, ha insistito sulla necessità di andare oltre i provvedimenti contingenti. Nessuna contrarietà di principio, ovviamente, da parte di Letta e del ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni. Ma è chiaro che i problemi nasceranno quando si passerà ad esaminare il merito delle proposte. Il Pdl si è portato avanti, nel senso che il suo piano lo ha messo nero su bianco già in campagna elettorale attraverso il lavoro di una commissione del partito, coordinata dallo stesso Brunetta, che si è avvalsa della collaborazione di economisti del calibro di Paolo Savona, Francesco Forte, Rainer Masera e altri. Per gli uomini di Silvio Berlusconi bisogna ripartire da lì, anche se c’è la consapevolezza che non si tratta dell’unica proposta in campo e che dunque sarà necessario confrontarsi. Ma l’impianto targato Pdl è di quelli ad effetto: punta infatti a una riduzione strutturale del debito pubblico per almeno 400 miliardi di euro (circa 20-25 punti di Pil), così da portare sotto il 100% il rapporto rispetto al Pil in 5 anni.
L’esame del Tesoro
Lo scetticismo, sul fatto che possano essere questi i reali valori in gioco, è d’obbligo, tanto più al Tesoro, dove la prudenza e il realismo sono una deformazione professionale. Il tema però è sul tavolo. Qualcosina si sta muovendo, con la costituzione della Sgr (società di gestione del risparmio) ad opera dell’ex ministro dell’Economia Vittorio Grilli che, a maggio, con un blitz prima di lasciare il suo ufficio, ha emanato il decreto sulla società che gestirà il “fondo dei fondi” previsto dal decreto sulla spending review, nominando il suo capo di gabinetto (e già di Tremonti), Vincenzo Fortunato, presidente della stessa e Elisabetta Spitz, già direttrice generale dell’Agenzia del demanio, amministratore delegato. La necessaria autorizzazione della Banca d’Italia ad operare è arrivata in questi giorni e anche la prima lista di 350 immobili pubblici da conferire, per un valore di un miliardo e mezzo, sarebbe stata trasmessa. Siamo però in forte ritardo rispetto all’obiettivo dello stesso Grilli di vendere patrimonio pubblico per almeno un punto di Pil all’anno (15 miliardi di euro), su una massa patrimoniale potenzialmente aggredibile tra 239 e 319 miliardi, secondo le stime del precedente governo.
Il nodo del Fiscal Compact
Proprio da qui, da questi ritardi, il Pdl parte per incalzare Saccomanni a intraprendere una strategia d’urto. Del resto, il tempo stringe. Dal 2015 partirà il Fiscal compact, le nuove regole europee di bilancio, per rispettare le quali l’Italia dovrà tagliare ogni anno per 20 anni il debito pubblico di 3 punti di Pil, circa 45 miliardi a valori attuali, così da arrivare alla fine del percorso a un debito pari a non più del 60% del prodotto interno lordo. Invece di subire questa tassa ventennale sarebbe meglio trovare un modo per abbattere subito il debito e guadagnare così nuovi spazi di manovra di bilancio che altrimenti sarebbero preclusi. Di qui le proposte choc del Pdl.
Cinque anni per chiudere il conto
Dei 400 miliardi di debito da tagliare, dice il piano messo a punto da Brunetta, 100 deriverebbero dalla vendita di beni pubblici per 15-20 miliardi l’anno (in sostanza il programma Grilli); 40-50 miliardi dalla costituzione e cessione di società per le concessioni demaniali; 25-35 miliardi dalla tassazione ordinaria delle attività finanziarie detenute in Svizzera (5-7 miliardi l’anno); i restanti 215-235 miliardi dall’operazione choc, appunto. Verrebbe individuata una porzione di beni patrimoniali e diritti dello Stato, a livello centrale e periferico, disponibili e non strategici, e venduta a una società di diritto privato di nuova costituzione partecipata principalmente da banche, assicurazioni, fondazioni bancarie ed altri soggetti . La società emetterebbe obbligazioni a 15-20 anni garantite dai beni. Essendo emessi da un soggetto privato, tali titoli non entrerebbero nel computo del debito pubblico. Lo Stato incasserebbe il corrispettivo portandolo direttamente a riduzione del debito pubblico, con conseguente risparmio di interessi. Negli anni di vita del prestito obbligazionario la società procederebbe alla valorizzazione della redditività dei beni. Alla scadenza dei singoli lotti del prestito obbligazionario, ovvero anche prima a scadenze predeterminate, il soggetto che avrebbe proceduto all’acquisto di opzioni (warrant) avrebbe diritto all’acquisto dei beni e diritti costituenti il lotto di riferimento ed il prezzo per tale acquisto sarebbe utilizzato per il rimborso delle obbligazioni. Alla fine dei 5 anni il servizio sul debito si dimezzerebbe, scendendo a 35-40 miliardi l’anno.
Un piano in autunno
Letta e Saccomanni ovviamente conoscono queste proposte, ma intendono procedere con estrema cautela. Il presidente del Consiglio ha preso atto del pressing dei partiti della maggioranza, si è impegnato a far ripartire la spending review, dopo i risultati incerti conseguiti dal precedente governo, e ad immaginare un percorso per riprendere le dismissioni, partendo appunto dalla Sgr lasciata in eredità da Monti e Grilli, mentre sul debito pubblico non è andato oltre la promessa di un piano che verrà messo a punto entro l’autunno. La prudenza, se non lo scetticismo del Tesoro, poggiano su numerosi fattori: in tanti anni non si è mai riusciti a censire con esattezza il patrimonio che ha concrete possibilità di essere venduto a prezzi di mercato (il punto importante è questo); è probabile inoltre che si scatenerebbe un contenzioso fra Stato, Regioni ed enti locali su buona parte dei cespiti coinvolti. Ecco perché non sono possibili facili entusiasmi né tantomeno scorciatoie, secondo gli uomini di Saccomanni. Nel Pd, in particolare, una critica serrata alla proposta di elaborata dal Pdl è stata mossa dall’ex ministro ed economista Vincenzo Visco, che primo non crede esistano beni vendibili per 200 miliardi di euro e passa, secondo giudica pericoloso trasferire alle famiglie obbligazioni che, al confronto col mercato, rischierebbero un deprezzamento immediato trasformandosi così in una patrimoniale mascherata a danno dei cittadini e terzo ritiene che si darebbe l’alibi ai governi per allentare il rigore di bilancio, mentre solo una politica di costante avanzo primario (spesa al netto degli interessi inferiore alle entrate) potrebbe sul lungo periodo riportare il debito a livelli ragionevoli.
I precedenti, le privatizzazioni
Saccomanni, assicurano comunque al Tesoro, è al lavoro sul dossier, forte anche dei contatti e della lunga esperienza in Banca d’Italia. La prima richiesta del ministro agli uffici è stata di avere una stima il più possibile attendibile di quanto veramente si potrebbe collocare sul mercato. Solo a quel punto si potranno vedere gli spazi per una terapia d’urto sul debito. Del resto, i precedenti non sono incoraggianti. E´da una ventina d’anni che lo Stato non riesce a vendere le caserme dismesse (poca cosa, per carità, ma tutto fa brodo) e non mancano gli esempi di immobili venduti e che poi l’amministrazione ha dovuto ricomprare a un prezzo superiore per non pagare più affitti esosi. Infine, negli anni Novanta lo Stato incassò circa 200 mila miliardi di lire in seguito a un vasto programma di privatizzazioni, ma il debito pubblico non è stato piegato.
Enrico Marro – Corriere della Sera – 8 luglio 2013