Il virus dell’influenza aviaria A (H5N1) sta circolando in modo sostenuto in quasi tutto il mondo e ha provocato la morte di milioni di uccelli. Recentemente ha contagiato anche i bovini. Nonostante la significativa diffusione e i primi contagi umani risalenti a quasi 30 anni fa, ad oggi non ha provocato una pandemia. Per capirne le ragioni e quali sono i potenziali rischi, Fanpage.it ha contattato la virologa Ilaria Capua. Ecco cosa ci ha raccontato.
Da quando è stato individuato per la prima volta nel 1996, in un allevamento di uccelli acquatici domestici della Cina meridionale, il virus dell’influenza aviaria H5N1 ad alta patogenicità (HPAI) si è diffuso in larga parte del mondo, dando vita a focolai anche molto significativi tra i volatili. Dalla fine del 2021 è responsabile di un’epidemia praticamente globale che ancora oggi sta provocando la morte di decine di milioni di uccelli, con segnalazioni dall’Europa settentrionale all’America del Sud.
Intere colonie di uccelli marini selvatici – come sule, cormorani e pellicani – sono state completamente sterminate dal virus. L’impatto è stato drammatico anche su diverse specie classificate come a rischio, tanto che gli esperti parlano della perdita di decenni di sforzi nella loro conservazione. Mentre continua a mietere vittime tra gli uccelli, il patogeno non cessa di mutare ed evolversi, come dimostra la capacità di infettare decine di specie di mammiferi. Fra esse orsi, volpi, foche, furetti, cani, gatti e più recentemente bovini. Negli Stati Uniti l’infezione in allevamenti di mucche da latte è stata associata a tre casi umani di H5N1, fortunatamente lievi.
Il virus era comunque già stato responsabile di infezioni tra le persone, in particolar modo nel Sud Est asiatico. Nel 1997, l’anno successivo alla prima identificazione del patogeno, come indicato dai CDC statunitensi si verificarono 18 casi tra Cina e Hong Kong, con sei decessi confermati. Altri casi mortali sono stati documentati più recentemente in Cambogia e altri Paesi. A giugno 2024 è stata inoltre diffusa la notizia del primo decesso in Messico associato a un sottotipo diverso di virus dell’influenza aviaria A, l’H5N2.
La vittima, un 59enne, aveva diverse condizioni sottostanti e non è chiaro se sia morto per o con l’influenza aviaria. Ciò che è certo è che questo caso ha riacceso i riflettori sulla minaccia di questa famiglia di patogeni. Per comprendere meglio quali sono i rischi di trasmissione e di potenziale pandemia nell’uomo Fanpage.it ha contattato la virologa Ilaria Capua. Ecco cosa ci ha raccontato.
Professoressa Capua, cosa può dirci del virus dell’influenza A (H5N2) associato al decesso di un uomo in Messico e qual è il legame con l’H5N1 ad alta patogenicità?
In Messico sono moltissimi anni che circola un virus H5N2 nel pollame. È stato trovato sia come virus a bassa patogenicità che come virus ad alta patogenicità. Al momento non sono ancora disponibili tutte le sequenze di quello associato alla morte dell’uomo, quindi non sappiamo se appartiene al ceppo messicano, oppure se possa avere un’altra origine. I virus influenzali sono capaci di evolversi anche attraverso una specie di riproduzione sessuale, quindi un virus H5N1 si può incontrare in una cellula con un virus H9N2 e dar vita a una progenie virale di tipo H5N2. Questo perché si prende un gene da un virus e uno dall’altro.
È più o meno pericoloso?
È come se si mischiassero due mazzi di carte. Una delle peculiarità dei virus influenzali è proprio il riassortimento: se mettiamo un virus con otto palline – che sono i geni – con uno con altre otto palline e li inseriamo in uno shaker possono uscire fuori moltissime combinazioni.
Quindi è ancora presto per sapere esattamente quale virus ha contagiato la vittima e i potenziali rischi.
Questa persona deceduta aveva anche una serie di condizioni pregresse, inoltre sono state fatte delle indagini sui contatti e tutti risultano negativi. È un episodio che per ora sembrerebbe isolato. Noi non conosciamo ancora l’origine di questo virus, se è davvero “figlio” del cluster di virus messicani che circolano da un sacco di tempo nei polli (e questa persona ce li aveva), oppure se è un riassortante che è arrivato con gli uccelli selvatici. Non lo sappiamo ma nel giro di una settimana si saprà.
Recentemente sono state registrate infezioni di H5N1 in allevamenti di mucche da latte negli USA. Questo che rischio comporta per le persone? Ci sono stati tre casi di trasmissione all’uomo
Diciamo che fino ad oggi il virus non è stato trovato nei bovini da latte al di fuori degli Stati Uniti. Per ora l’infezione è limitata a un’ottantina di allevamenti di diversi Stati, che però non esportano latte e prodotti. Non c’è nulla di cui preoccuparsi e non c’entra nulla col latte che arriva sulle nostre tavole. Oltretutto il latte di tutto il mondo occidentale è pastorizzato: quando le mucche vengono munte e il latte si raccoglie, viene riscaldato a una temperatura intorno ai 60 °C che neutralizza il 99,99 percento dei patogeni, tra cui il virus dell’influenza. Questo latte non dovrebbe entrare nella catena commerciale, ma pure se ci entrasse sarebbe comunque pastorizzato.
Il virus però è riuscito ad arrivare anche ai bovini.
In questo momento ci sono delle grosse domande che si pongono i virologi, perché il virus dell’influenza aviaria non aveva mai infettato i bovini. Tant’è che si credeva che fossero resistenti, quindi vuol dire che avevamo sbagliato. Questo ci fa molto riflettere. Se uno va a leggere un qualsiasi libro di virologia trova che questi animali sono resistenti ai virus dell’influenza aviaria. Bisognerà capire com’è successo e studiare questo fenomeno, perché ovviamente si va da un tipo di allevamento – che è quello dei volatili, per il quale c’è esperienza – a un altro tipo di allevamento che è quello dei bovini da latte, dove non si sa gestirlo perché è la prima volta che si verifica. Dovremo continuare a seguirlo.
Viene da pensare che il virus, evolvendosi, sia diventato “bravo” a infettare anche i bovini. Questo processo in futuro lo renderà in grado di infettare anche le persone?
Il rischio, per ora sono casi di congiuntivite nelle persone che accudiscono gli animali. Ci sono stati tre casi. C’è un rischio legato alla condivisione degli spazi. Ci sono gli operatori che girano nelle sale di mungitura, quindi quel personale è a rischio, mentre i consumatori di latte non sono a rischio perché come abbiamo detto è pastorizzato.
Cosa può dirci del contagio da uomo a uomo? Il virus potrebbe rappresentare una minaccia pandemica?
Circa un anno fa è stato pubblicato un lavoro che parzialmente giustifica come mai con tanto virus H5 che sta circolando nel mondo da molti anni, sia negli uccelli selvatici che in quelli domestici, non c’è stata ancora una pandemia. Ci sono stati casi di bambini morti in Cambogia, in Ecuador, ma diciamo che le infezioni non riescono a decollare nella popolazione umana. Ci sono studi molto raffinati al riguardo, fatti fra l’altro da un ricercatore italiano chiamato Massimo Palmarini che lavora al CVR Glasgow, in Scozia. Ha fatto uno studio nel quale è stato mostrato che i virus H5 fanno fatica a trasmettersi da uomo a uomo. Non sarebbero dotati di tutti gli strumenti necessari per innescare una trasmissione tra uomo e uomo sostenuta, che si perpetua.
Cosa dovremmo fare ora con gli allevamenti?
La questione dell’infezione nei bovini è invece molto importante dal punto di vista dell’allevamento e anche da quello di come verrà gestita questa malattia in futuro. Noi non è che possiamo abbattere tutti i pennuti perché abbiamo paura che questi virus facciano danni anche alle persone e alle mucche. Non c’è una logicità. Dovremo capire meglio le dinamiche di infezione del bovino, come e dove l’hanno preso, perché è successo in più Stati. Ci sono state sicuramente più introduzioni. Al momento non ci hanno ancora dato molte informazioni rispetto a come si sia originato questo focolaio nei bovini.
Qual è l’ipotesi più probabile per l’origine di questo focolaio?
Addirittura si è parlato dell’utilizzo di pollina – la lettiera dove sono stati i polli – per nutrire le mucche. La teoria più accreditata è quella dell’introduzione tramite un uccello selvatico. Diciamo che ci sono molte sono ipotesi tutte da valutare. Per quanto riguarda l’H5N2 in Messico, se il virus appartiene al lineaggio messicano, probabilmente è successo anche in passato che qualcuno sia stato infettato e non ce ne siamo accorti, ma non si ritiene un virus che ha un potenziale pandemico particolarmente elevato.
Dunque sembra di capire che, almeno al momento, questi virus H5 non rappresentino una minaccia così seria per l’essere umano
Già è difficile che facciano il passaggio da animale a essere umano. Da uomo a uomo ancora di meno. Certo, sono virus molto variabili, perché cambiano per questo meccanismo di riassortimento. In futuro potrebbe anche uscire fuori un virus H5N2 che acquisisce geni da un altro virus e diventa più trasmissibile per l’uomo. Però per adesso non abbiamo evidenza di questo. Bisogna capire che cosa sta succedendo e da dove arriva. Già sarebbe tanto. Comunque il fatto che ci sia virus H5N1 in allevamenti con centinaia o migliaia di capi aumenta i rischi per l’uomo, perché centinaia di persone lavorano in quegli ambienti. È tutta una questione di numeri, di esposizione. Se ci sono mille mucche infette, elimineranno moltissimo virus. Più sono e maggiore è il rischio che si infettino le persone. Ma ad oggi abbiamo evidenza soltanto di tre casi di congiuntivite, quindi è ancora troppo presto per parlare con dati alla mano.
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