E il carbone il nodo dello scontro alla conferenza sul clima di Parigi. Da una parte l’india che pretende la licenza di inquinare, dall’altra gli scienziati che awertono: così si va verso un cambiamento climatico devastante. Narendra Modi nel giorno di apertura del summit aveva detto «i paesi ricchi non possono imporci di abbandonare le fonti fossili», cioè il carbone che costituisce il 59 per cento della potenza elettrica installata in India. Oggi è arrivata la risposta del Climate action tracker, il cartello di istituti di ricerca guidato dal prestigioso Potsdam Institut.
Anche senza la costruzione di nuove centrali, gli attuali impianti a carbone producono a livello globale un trend di emissioni che nel 2030 sarà del 150 per cento superiore rispetto al modello necessario a mantenere l’aumento di temperatura entro i 2 gradi. E con le 2.440 centrali a carbone progettate o già in costruzione si arriverebbe a un aumento del 400 per cento: uno scenario che porta a superare i 3 gradi, con un esito catastrofico. Dunque non solo non bisogna costruire altri impianti a carbone, ma è necessario chiudere una parte di quelli esistenti.
Questa contrapposizione radicale segna comunque solo la fase di apertura dei lavori. Proprio oggi è stato annunciato da Modi e dal presidente francese Francois Hollande un’alleanza per il solare che punta a rastrellare mille miliardi di dollari di investimenti entro il 2030. Il premier indiano da un lato reclama via libera per il carbone, dall’altro cerca i fondi per sostituirlo il più rapidamente possibile.
Ma tra la ragione degli scienziati e le necessità della politica, la via del cambiamento è però molto stretta. Lo ha ricordato il presidente americano Barack Obama: «Resto ottimista, anche se mettere d’accordo 200 paesi sarà difficile». L’intesa, come ha aggiunto Hollande, non dovrà essere né troppo vaga né troppo impegnativa sul piano giuridico: «O la barca si sovraccarica e affonda, o la alleggeriamo troppo e non va da nessuna parte». Ci sono ancora 11 giorni di tempo per mettere a punto la rotta. E questa volta sbagliare vorrebbe dire affondare.
Repubblica – 2 dicembre 2015