La Stampa
«Non è vero che abbiamo peggiorato la legge Fornero, anzi». Il sottosegretario e responsabile lavoro della Lega, Claudio Durigon, ne è convinto. «Abbiamo introdotto alcuni correttivi – spiega – e se non siamo riusciti a fare di più è perché con la legge di bilancio si è fatta la scelta di privilegiare il taglio del cuneo». Quanto a possibili correzioni, dopo aver cassato il passaggio a Quota 104 non è ancora detta l’ultima parola: sui tagli alle aliquote contributive dei dipendenti pubblici, ad esempio, «all’interno del governo è in corso una riflessione e non è escluso che in sede di conversione della legge di bilancio si possano introdurre dei correttivi».
Sindacati ed opposizioni vi accusano di avere inasprito la legge Fornero, che in campagna elettorale avevate promesso di cancellare.
«Non è vero che abbiamo peggiorato la Fornero. Perché la legge Fornero, ad esempio, non prevedeva la flessibilità in uscita che noi abbiamo introdotto con Quota 103. E poi abbiamo abbassato (da 1,5 volte a 1 il valore dell’assegno sociale) il livello minimo di pensione richiesto per uscire a 67 anni di età con 20 di contributi, mentre per le pensioni contributive l’uscita a 64 anni con 20 di versamenti per le donne con almeno un figlio è stata resa più agevole abbassando da 2,8 a 2,6 volte la minima il valore richiesto per poter lasciare il lavoro. Sono tre interventi che nella Fornero non c’erano e che noi abbiamo inserito».
Ma la nuova Quota 103 prevede il ricalcolo contributivo, e questo ridurrà notevolmente le pensioni future. E poi sono state allungate le finestre d’uscita. Rispetto all’anno scorso è peggiorata.
«È vero sono stati aggiunti dei nuovi paletti, ma è anche vero che nelle prime bozze c’era una Quota 104 con penalizzazioni che era anche peggio. In sostanza abbiamo voluto dare un’impronta politica alla nostra riforma: è vero che siamo intervenuti sul sistema retributivo, ma sapendo che ogni anno che passa il contributivo sarà sempre più prevalente nel calcolo degli assegni pensionistici. Già oggi pesa per i tre quarti mentre un quarto è basato sul retributivo».
Questo però significa tagli anche pesanti agli assegni.
«Ma se vogliamo assicurare la sostenibilità dell’intero sistema è inevitabile ragionare sempre più in termini di sistema contributivo. Per questo abbiamo mantenuto i 62 anni di età e i 41 di contributi come strumento per andare in pensione prima, puntando poi ad arrivare a fine legislatura a Quota 41 per tutti sempre col calcolo contributivo, in maniera tale da rendere questa misura sostenibile dal punto di vista economico-finanziario e come livelli di uscita».
A proposito di ricalcoli, l’intervento sulle aliquote contributive di 700 mila dipendenti pubblici tra comunali, medici e infermieri e insegnanti delle scuole paritarie fa discutere tanto. Ci sono già tutti i settori della sanità in rivolta.
«È un intervento nato al livello di governo che serve a ristabilire un po’ di equilibrio tra i vari settori e a rendere più omogenei i criteri di calcolo delle pensioni. Solamente queste categorie, in base ad una vecchia tabella del 1965 che tutti si erano dimenticati dopo che nel 1996 era stato avviato il passaggio al sistema contributivo, avevano un rendimento del 26% sui versamenti dell’ultimo anno contro il 2% degli altri settori. Capisco le proteste, a partire dalla sanità che ha già dato tanto, vedremo se durante l’iter parlamentare si potrà intervenire. Il governo a saldi invariati lo può sempre fare: sino all’ultimo abbiamo lavorato a possibili aggiustamenti e non escludo che più avanti si possa far qualcosa».
Di più non si poteva fare?
«Avendo deciso di investire sul taglio del cuneo in maniera così forte, con un taglio di 13-14 miliardi e avendo anche un’eredità pesante come il Super bonus, oggettivamente era difficile immaginare la sostenibilità di altri interventi. Però abbiamo mantenuto la barra dritta con Quota 103 puntando a completare il disegno entro fine legislatura». —