Giuseppe Agliastro. Il riscaldamento globale sta trasformando gradualmente la Russia in una superpotenza agricola. L’economia russa si basa principalmente sulla vendita di gas e petrolio: ciò la rende pericolosamente fragile e legata a doppio filo all’andamento del prezzo del greggio, che negli ultimi anni è calato notevolmente trascinando a fondo con sé anche il rublo. Del resto, a parte le armi, la Russia esporta nel mondo davvero pochi prodotti finiti. L’agricoltura rappresenta invece appena il 4% del Pil. Ma ha un fiore all’occhiello: i cereali. E una serie di fattori – tra cui non ultimo l’aumento delle temperature – stanno portando le esportazioni di frumento russo a livelli da record. Mosca è infatti adesso il primo esportatore di frumento del pianeta: dopo essersi lasciata alle spalle gli Usa, ha sorpassato anche l’Unione europea e si prevede che nel prossimo futuro continui imperterrita su questa strada.
Nell’ultimo anno commerciale (luglio 2016-giugno 2017), la Russia ha esportato qualcosa come 27,8 milioni di tonnellate di frumento, e quest’anno – secondo il ministero dell’Agricoltura statunitense – dovrebbe raggiungere i 31,5 milioni puntando ormai al primato in fuga. La produzione nel 2017 dovrebbe toccare invece quota 80 milioni di tonnellate, un altro passo in avanti rispetto agli oltre 73 milioni dello scorso anno.
Ma cosa ha provocato questo boom delle esportazioni di frumento russo? Innanzitutto il riscaldamento globale, che sta estendendo sempre più verso Nord le terre coltivabili. Si calcola che, rispetto alla fine degli Anni 80 del secolo scorso, le temperature nelle aree dell’Europa e dell’Asia coltivate a cereali cresceranno di 1,8 gradi entro il 2020 e di 3,9 gradi entro il 2050. Questo fatto, sommato allo sviluppo tecnologico, dovrebbe portare in breve – scrive Bloomberg – a sfruttare nuovamente 140 milioni di acri di terra che, dopo il crollo dell’Urss, sono rimasti incolti in Russia, e in minor misura in Ucraina e Kazakistan. A tutto ciò bisogna aggiungere la crescita della popolazione mondiale, che sta accelerando sempre di più il consumo di cereali, aumentato mediamente del 2,8% l’anno tra il 2011 e il 2016.
I cambiamenti climatici stanno però favorendo i russi anche sui rivali americani e australiani, che soffrono sempre di più la mancanza di acqua, mentre Mosca con i suoi produttori è da tempo all’arrembaggio nella conquista dei mercati asiatici, e non solo: il frumento russo sta inondando Nigeria, Bangladesh e Indonesia. E soprattutto sembra aver ormai spodestato gli esportatori americani nel Paese in testa alla classifica degli acquirenti: l’Egitto. La ragione principale è il prezzo del prodotto russo, più basso rispetto a quello dei concorrenti europei e statunitensi: molti dei quali sono stati costretti a investire in frumenti di migliore qualità per diversificare la propria offerta e giustificare il prezzo più elevato.
Se i russi possono vendere a meno è perché hanno costi inferiori: addirittura pari alla metà di quelli che devono sostenere i produttori di Usa e Ue, stando a uno studio della Kansas State University. E questo è dovuto in buona parte anche alla svalutazione del rublo, il cui cambio – tra crollo del petrolio e sanzioni occidentali per la crisi ucraina – è passato in pochi anni da 40 a circa 70 sull’euro. Il prezzo del frumento russo sembra aver seguito la stessa tendenza, passando dai 350 dollari a tonnellata del 2012 agli attuali 180 dollari.
Forse un giorno – sicuramente ancora lontano – si avvererà la profezia del ministro dell’Agricoltura Aleksandr Tkaciòv, e i cereali sostituiranno gli idrocarburi come principale fonte di reddito del Paese. Il Cremlino in realtà, più che sui campi coltivati, punta però sullo sviluppo della scienza e della tecnologia: sono questi i settori indicati un paio di settimane fa da Putin quando ha inaugurato l’anno scolastico in un Forum orientativo per studenti di talento. Ma certo anche la tecnologia potrà (e dovrà) aiutare l’agricoltura e in generale la produzione di cibo. Nonostante le tante dichiarazioni dal sapore autarchico nel pieno della «guerra» delle sanzioni con l’Occidente, la Russia continua a dipendere in larga parte dall’estero per i generi alimentari. E il divieto di acquistarli da Ue e Usa ha contribuito a portare alle stelle un’inflazione che sta rientrando solo ora.
La Stampa – 14 settembre 2017