Le grandi estinzioni di massa avvenute in passato sulla Terra sono state causate da una catastrofe imprevedibile, come la caduta di un asteroide. Ma l’ultima, forse la più grave di tutte, è in corso senza che un evento appariscente ci consenta di dare la colpa al destino: entro il 2020, tra poco più di tre anni, il 67% dei vertebrati che esistevano nel 1970 sarà estinto.
Quasi 7 animali su 10 che solo mezzo secolo fa popolavano fiumi, laghi, foreste e brughiere non ci sarà più. E la responsabilità è solo degli esseri umani.Il rapporto «The Living Planet 2016», redatto dal Wwf e dalla Zoological Society di Londra, è un grido d’allarme che conferma l’ingresso nell’Antropocene, la nuova era geologica caratterizzata dalle modifiche al pianeta apportate dall’uomo. Scienziati di tutto il mondo hanno esaminato 14.152 esemplari di 3706 specie di vertebrati, e hanno scoperto che il loro numero si è ridotto del 58% tra il 1970 e il 2012, con un tasso di decrescita medio che oggi tocca il 2% l’anno e che non accenna a diminuire. Da qui l’agghiacciante previsione sullo stato del pianeta nel 2020.
Il bracconaggio e la caccia sono responsabili della quasi sicura imminente scomparsa dell’elefante africano e del gorilla di montagna, ma la maggior parte dei vertebrati è minacciata dalla distruzione dell’habitat nel quale vivono, dovuta alla creazione di nuovi campi destinati alle coltivazioni o a cementificazioni urbane. Ormai solo sul 15% della superficie terrestre la natura è protetta da leggi severe: sul restante 85% dominano le attività umane, sempre più incuranti e predatorie. Nel 2012 occorrevano 1,6 pianeti come il nostro per soddisfare il fabbisogno annuale di risorse dell’umanità, ma oggi non ne basterebbero due.
I più colpiti sono i fiumi e i laghi, dove l’estinzione dei vertebrati ha già toccato l’81% a causa dell’inquinamento, delle dighe e della pesca di frodo. Un fungo dilagato in seguito alla tratta di rane e tritoni ha fatto strage di anfibi in tutto il mondo; in Asia gli avvoltoi stanno scomparendo perché si cibano di carcasse di mucche alle quali vengono somministrati anti-infiammatori; in Europa le anguille sono sempre più rare per colpa del degrado ambientale; delfini e orche muoiono ingerendo pesce contaminato e migliaia di altre specie meno conosciute stanno scomparendo. Il riscaldamento globale, secondo lo studio, è solo una componente marginale di questo fenomeno, dovuto quasi interamente al dilagare della specie umana sulla Terra, che ha accelerato di 100 volte il normale tasso di estinzione.
Gli esperti pensano che la situazione non sia mai stata così grave, ma credono che ci sia ancora tempo per rimediare: «Dobbiamo ridefinire la relazione con il pianeta – ha detto Marco Lambertini, direttore generale del Wwf – e passare da un rapporto in cui ci comportiamo da predatori a uno in cui natura e persone coesistano in armonia. E abbiamo gli strumenti per risolvere questo problema». Molte storie di successo lo confermano: il panda gigante è stato salvato, in Europa sono tornati gli orsi, i lupi e le linci. Sarà sempre difficile convincere un pastore che lupi, volpi e linci siano animali da salvare, ma in luoghi come la Maremma toscana ci stanno provando con successo, e molto di più si potrebbe fare nelle scuole e negli uffici di chi decide i nuovi insediamenti urbani.
«Le persone, i governi e le aziende – ha detto Mike Barrett, direttore delle politiche nel Wwf britannico – devono agire adesso. Abbiamo una responsabilità sulle generazioni future. Siamo la prima specie a cambiare il pianeta, ma siamo anche dotati di comprensione: tutto dipende solo dalla nostra determinazione». Ora gli scienziati sperano che il loro appello non resti inascoltato, anche se nessuno si illude che si tratti di un percorso facile. Bisognerà convincere tutti gli esseri umani che la colpa non è genericamente di una società rapace: ognuno è responsabile di quello che sta accadendo, e ognuno può e dovrebbe fare qualcosa.
La Stampa – 28 ottobre 2016