di Stefano Folli. Fa bene Enrico Letta a mostrarsi determinato. A garantire di voler giocare “in attacco”, se questo vuol dire mettere un po’ di carburante nella macchina del governo. Nella politica moderna non basta fare le cose, bisogna soprattutto che siano ben comunicate e recepite al meglio dai cittadini.
Il presidente del Consiglio, è evidente, si rende conto che la montagna da scalare è sempre più ripida. La linea morbida scelta da Berlusconi non ha sorpreso quasi nessuno, ma resta da capire quanto vale adesso la stabilità riaffermata.
Il rischio che il centrodestra consideri quello di Letta un «governo amico», nel senso più ambiguo e distaccato del termine, è reale. I nodi tuttora irrisolti della politica economica sono lì davanti agli occhi di tutti: a cominciare dall’Iva per continuare con l’Imu, la strategia anti-deficit, il debito in crescita costante. Si tratta di altrettante mine che costellano il sentiero del governo. Possono esser fatte brillare oppure no, a seconda della convenienza. E Berlusconi, nel momento in cui depone le armi sulla questione Mediaset e accetta di lasciare il Parlamento, magari attraverso dimissioni volontarie, si tiene in tasca una pistola carica. Ognuno dei punti sopra citati può diventare all’occorrenza un «casus belli».
Questo aspetto è abbastanza chiaro. Ma c’è molto d’altro. In primo luogo, le larghe intese dovranno ridefinire la propria identità quanto prima. Considerato che le risorse economiche sono scarse (vedi l’affare Iva), in cosa consisterà il gioco d’attacco promesso dal premier? Sulla carta l’unico risultato potrà venire dalla riforma della Costituzione, secondo il progetto di cui il ministro Quagliariello è il coordinatore e il cui obiettivo è un forte rafforzamento del potere esecutivo, da un lato, e del controllo parlamentare, dall’altro. Un piano assai ambizioso, la sintesi del dibattito che si trascina da quasi trent’anni. Avrebbe bisogno di un alto grado di coesione politica nella maggioranza per essere attuato. E non sembra che sia il nostro caso, anche se è legittimo sperare e battersi per un esito virtuoso.
Vero è che almeno la legge elettorale stavolta potrebbe essere a portata di mano: incombe la pronuncia della Corte Costituzionale e quindi una mini-riforma, una sorta di soluzione transitoria che cancelli il peggio del “porcellum”, è plausibile. Rispetto al consueto immobilismo sarebbe quasi una rivoluzione. Tuttavia il senso di una “grande coalizione” è nel suo orizzonte riformatore. E forse non si è mai vista una larga maggioranza così poco convinta di sé alla vigilia del salto di qualità che dovrà decidere il suo posto nella storia politica.
In secondo luogo, il tema della giustizia resta centrale, al di là del modo strumentale con cui Berlusconi lo ha piegato alla sua vicenda personale. Non a caso il capo dello Stato ha sollecitato di nuovo la riforma dell’ordinamento giudiziario proprio nei giorni in cui la Cassazione confermava la condanna per i diritti tv. Ora, si capisce che Letta abbia voluto prendere le distanze dagli attacchi di Berlusconi alla magistratura, di cui ha difeso l’autonomia. Tuttavia le sue parole sembrano suggerire l’idea che in Italia la giustizia sia amministrata nel migliore dei modi. Purtroppo non è così e lo sanno bene i cittadini e gli stessi investitori stranieri che il premier voleva rassicurare. Qui il realismo di Napolitano è più convincente del manierismo di Letta.
Il Sole 24 Ore – 20 settembre 2013