Repubblica. «Qualche giorno fa, come sempre, ci siamo riuniti di buon mattino con i colleghi dell’ospedale. Un chirurgo si chiedeva: ho un solo posto, che faccio, opero un tumore al pancreas o uno al colon? Ecco, anche questo è il Covid. Ci mette di fronte a scelte che non fanno dormire la notte». Pierluigi Viale, direttore dell’unità di malattie infettive del Sant’Orsola di Bologna, parla da una provincia che ha mille ricoverati per il virus. Ma non è la sola con gli ospedali sotto pressione. Le terapie intensive in Italia sono arrivate a 3.448 ricoveri (61 in più ieri), non molto lontano dal record di quattromila di un anno fa. Nei reparti ordinari sono ricoverate 27.484 persone. Secondo Agenas (Agenzia per i servizi sanitari regionali) l’occupazione delle terapie intensive è al 38%, ben al di sopra della soglia critica del 30%. «Da noi la circolazione è furiosa. Chiunque può essere colpito» dice Viale. «In ospedale abbiamo gente di ogni età».
Il problema non è solo il virus, ma le altre malattie?
«Sono 360 giorni che ci prendiamo a botte con il virus, e continueremo a farlo fino a quando sarà necessario. Ma la cosa che trovo più angosciante è fermare tante altre attività degli ospedali e mettere in lista d’attesa malattie che il nostro sistema sanitario non avrebbe mai permesso di lasciare indietro. Un malato di tumore non può aspettare. Il Sant’Orsola che chiude il suo centro trapianti, anche se solo per un giorno, per colpa di un focolaio, è come una madre che ripudia i suoi figli. Con 10mila contagi al giorno in Italia le nostre strutture soffrono, ma reggono. Con 25mila al giorno non abbiamo possibilità di farcela a lungo. Sono 40 anni che lavoro per questo sistema sanitario, credendoci fino in fondo. Oggi lo vedo alle corde e ho un po’ paura».
Ci sono malati lasciati indietro?
«Sono giorni pesantissimi per tutti. Ai colleghi del pronto soccorso arrivano tantissime persone che hanno bisogno di un letto o di cure intensive. Ma saturare troppi posti di terapia intensiva con pazienti Covid vuol dire rallentare tutte le attività chirurgiche e molte attività non chirurgiche. Le emergenze sono sempre garantite: chi ha un infarto o un trauma grave arriva in ambulanza a sirene spiegate e viene assistito. Per gli interventi urgenti troviamo aiuto anche dal privato. Ma ci sono gli altri pazienti da assistere, e per loro diventa difficile trovare collocazione. Mio padre mi diceva che la nostra è una generazione fortunata perché non ha vissuto la guerra. Ora questa è la nostra guerra, e ce la stiamo giocando al meglio delle nostre forze. A farci paura non sono le bombe, ma il timore di non riuscire a garantire il meglio a tutti, che è il principio del nostro sistema sanitario. È fra i migliori al mondo, ha sempre curato ricchi e poveri con le stesse garanzie. E ora trema come in un terremoto. È una cosa difficile da portarsi a letto la sera. Il mio bambino passa le giornate in casa e quando torno chiede: papà ma quando lo sconfiggi questo virus?».
Non va meglio con i vaccini? Avete meno anziani in ospedale?
«Sì, i grandi anziani sembrano più protetti, ma il virus trova altre strade contagiando le persone più giovani. Nei nostri reparti oggi ci sono pazienti di ogni età. Il coinvolgimento di tante persone più giovani ci mette di fronte a profili di malattia diversi, talvolta anche più gravi. È un problema legato anche ai comportamenti sociali: durante la prima ondata abbiamo rispettato il lockdown con un rigore che non ci saremmo aspettati nel nostro paese.Poi l’attenzione è scemata, l’abitudine alla paura ci ha fatto abbassare la guardia, come spesso avviene negli esseri umani proprio nelle situazioni più critiche. Ed eccoci qui, di nuovo in piena crisi».
La previsione che il picco è vicino, o forse è passato, non vi solleva?
«Certo, come il fatto che le vaccinazioni avanzino. Tutte le grandi epidemie del passato sono durate due anni e mezzo e questa volta grazie alle immunizzazioni ne usciremo prima. Ma resteremo di sicuro scossi».
La sua generazione è cresciuta affrontando l’Hiv. Cosa vi ha lasciato quell’esperienza?
«Era una situazione non banale, con una malattia nuova che nessuno conosceva. Eravamo pieni di incertezze. La cosa che mi colpiva di più, dal punto di vista personale, era il ritrovarmi a curare dei coetanei. Ma non c’era l’andamento travolgente che stiamo vivendo oggi. Allora il sistema sanitario italiano reagì in modo spettacolare, con una legge che ha insegnato a molti, anche all’estero, come gestire l’epidemia. La scienza ha fatto grandi progressi in poco tempo e oggi una persona con l’Hiv può fare un mutuo, perché ha un’aspettativa di vita pressoché normale. La fiducia nel nostro sistema sanitario non uscì intaccata da quell’epidemia, anzi. Ora invece stiamo su un ring a prendere tanti pugni, da farci tremare, anche se siamo sempre in piedi. Come Rocky, alla fine vinceremo. Forse, dopo i risultati ottenuti contro l’Hiv, eravamo tornati a crederci invincibili, ma questa malattia nuova ci ha ricordato quanto siamo fragili. Questa volta poi è un problema in cui ci ritroviamo coinvolti tutti. Il virus non si prende con l’attività sessuale, ma respirando. E di respirare, proprio nessuno può fare a meno».