Tito Boeri, l’economista del lavoro che tra un mese compie due anni tempestosi come presidente dell’Inps, riceve da solo — e anche questo è un segno — nella sede milanese dell’Istituto. Zero uscieri, zero segretarie e un auspicio per i due anni che ancora gli restano alla guida: «Chiedo che non mi vengano messi i bastoni tra le ruote: non ho mai minacciato le dimissioni, ma non ho timore a difendere le mie posizioni. Se anche mi dovessero cacciare ho il privilegio di poter tornare a un lavoro che amo e quindi non sono condizionabile».
I dati sulla disoccupazione giovanile e la polemica sui voucher — oggi la Consulta decide sui quesiti referendari della Cgil — riportano l’attenzione su un lavoro che non c’è e che se c’è tende a divenire precario. Lei ha dato in passato un giudizio positivo sul Jobs Act. Lo conferma anche con questi dati?
«La disoccupazione giovanile resta a livelli inaccettabili. Ma da quando c’è il Jobs Act l’occupazione è cresciuta più del reddito nazionale. Gli studi che stiamo facendo ci diranno che ruolo hanno avuto in questo gli incentivi fiscali rispetto al contratto a tutele crescenti, il cui scopo principale era comunque quello di migliorare in prospettiva la produttività e i salari visto che questa forma di contratto vuole stimolare le imprese a investire sulla formazione dei lavoratori ».
Da una parte quel contratto, dall’altra i contestati voucher. Sono “pizzini”, come dice la Camusso?
«No. Non c’è dubbio che c’è stato un abuso dei voucher per le prestazioni temporanee e accessorie e che sono stati utilizzati per finalità molto differenti da quelle che il legislatore si era proposto. Qualche correttivo quindi serve. Ma cancellare i voucher sarebbe davvero sbagliato. Anche perché nel dibattito di questi giorni vedo molta ipocrisia».
Quella della Cgil che contesta i voucher ma poi li usa a Bologna per pagare alcune prestazioni di pensionati?
«Dai nostri dati si tratta di un episodio tutt’altro che isolato. Nell’ultimo anno la Cgil ha investito 750 mila euro in voucher; non si tratta quindi né solo di Bologna né solo di pensionati. Anche altri sindacati hanno massicciamente usato questi strumenti, ad esempio la Cisl ne ha utilizzati per un valore di 1 milione e mezzo di euro».
Dei voucher conviene quindi prendere la loro funzione di far emergere il lavoro nero, come dice chi li vuole?
«Questo era il loro obiettivo accanto a quello di offrire lavoretti a studenti e pensionati. Ma solo un quinto dei percettori appartiene a queste categorie e i voucher sono cresciuti di meno nei settori dove c’è più lavoro nero come tra i collaboratori domestici e in agricoltura ».
Come correggere allora il loro utilizzo?
«Si possono imporre dei limiti all’utilizzo mensile anziché annuale dei voucher. Se vediamo che in un mese lo stesso datore di lavoro ha usato lo stesso lavoratore per molte ore con i voucher questo indica la sostituzione di un contratto di lavoro alle dipendenze con i voucher. Si possono migliorare i controlli facendo arrivare direttamente all’Inps anziché al ministero gli sms di attivazione e rendendo finalmente operativo l’ispettorato nazionale del lavoro per assicurare che al voucher corrisponda effettivamente a un’ora lavorata».
Dal lavoro all’Inps. La sua riorganizzazione dell’istituto non piace a tutti. Anzi, sembra piacere davvero a pochi… «Gli attacchi continui, comprese queste denunce che alcuni dirigenti avrebbero fatto nei miei confronti, si spiegano con il fatto che un’operazione di razionalizzazione come quella che abbiamo avviato all’Inps non è mai stata fatta nella Pubblica amministrazione. Invece di mantenere i dirigenti riduciamo di un quarto quelli di prima fascia, rafforziamo la presenza dell’Inps sul territorio e creiamo spazio per nuove assunzioni di giovani laureati, magari anche che abbiano fatto esperienze all’estero e vogliano tornare in Italia. Ovvio che di fronte a questi cambiamenti si scatenino delle reazioni».
Ma lei che cosa vuole cambiare nella macchina che eroga le pensioni agli italiani?
«L’Inps fa molto di più che pagare le pensioni. Ha tenuto insieme il Paese durante la crisi. Ciò detto, può e deve funzionare meglio e il cambiamento deve partire dalla classe dirigente dell’Inps. Finora le promozioni a dirigente di prima fascia avvenivano spesso in modo opaco. Il risultato è stato quello di arrivare a 48 direzioni, con nomi spesso fantasiosi, che creavano sovrapposizioni e conflitti decisionali. Con la riorganizzazione abbiamo azzerato le prime e le seconde linee ed entro febbraio attribuiremo i nuovi incarichi generando una dirigenza ridotta nel numero, meno costosa e più vicina ai cittadini».
Lei deve anche nominare il nuovo direttore generale dopo le dimissioni di Massimo Cioffi, con il quale ha avuto un conflitto.
«Ho proposto Gabriella Di Michele e sto aspettando l’approvazione del ministero, che spero arrivi già oggi».
La riorganizzazione però non piace al ministero del lavoro. Prima di Natale vi siete lasciati con un scambio di missive velenoso… «È stato sorprendente, perché il ministro Poletti aveva espresso soddisfazione per la riorganizzazione dell’Istituto, nella quale eravamo andati incontro a molte sue richieste, e poi ci siamo ritrovati con una lettera del direttore generale del ministero alla quale comunque abbiamo già dato risposta. Peraltro l’ultima nota ci rimproverava molto sul bilancio dell’Inps, senza tenere conto di quello che stiamo facendo per aumentare le entrate e ridurre i costi».
Ad esempio?
«Abbiamo pronta una circolare che interviene sulle modalità di calcolo delle pensioni dei sindacalisti. Alla luce di una sentenza della Corte dei Conti possiamo intervenire per via amministrativa anche su prestazioni in essere ad ex-sindacalisti. Basta solo l’ok del Lavoro e partiamo».
Traduzione?
«Oggi alcuni sindacalisti distaccati possono fare versamenti anche molto consistenti negli ultimi anni di lavoro. E questi versamenti episodici hanno un impatto sulla pensione molto rilevante al contrario di quanto avviene per gli altri lavoratori. Questa prassi ha portato ad aumenti del trattamento fino al 60%».
Quante persone sono coinvolte?
«Circa 40 già in pensione e 1400 sindacalisti in attività».
Piccoli numeri, insomma.
«Sì, ma con un forte valore simbolico di equità, creando un precedente che potrebbe essere utilizzato per intervenire sui vitalizi».
Nel governo c’è chi vuole intervenire per decreto sulla povertà. E opportuno? Ed è utile?
«Dal punto di vista tecnico è di sicuro opportuno. La povertà è aumentata di un terzo dal 2008 a oggi ed è giusto ambire a uno strumento universale e al tempo stesso selettivo come un reddito minimo garantito. Per farlo, però, bisognerebbe sfruttare l’esperienza positiva dell’Isee ed evitare che, come accade oggi, circa 5 miliardi di prestazioni assistenziali vadano a persone che sono nel 20% più ricco della popolazione. Il marito di una ricca manager con grande casa di proprietà non è proprio detto che debba ricevere la quattordicesima».
Il disegno di legge è bloccato in Parlamento. Sarebbe il caso di procedere per decreto?
«In Parlamento si sono persi dei pezzi importanti, come la possibilità di intervenire sui trattamenti assistenziali in essere — correggendoli e non cancellandoli — per ridurre storture come quella a cui accennavo prima. Visto che la legislatura può durare circa un anno, ci sarebbero tutte le ragioni per un decreto. Sul piano politico sarebbe un modo per dare una risposta ai movimenti anti establishment che sorgono in Italia come in altri paesi. Una pubblica amministrazione che aiuta chi ha davvero bisogno sulla base di criteri oggettivi, come un Isee basso, e non perché è sostenuto dal politico locale, migliora il rapporto fra cittadini e Stato e spiazza il clientelismo ».
Repubblica – 11 gennaio 2017