«Stai zitto!». Peggio ancora: «Ma sta’ zitta», senza neanche l’esclamativo. Se questa roba ve l’hanno detta almeno una volta, e con quel tono lì, allora potete rispondere con cognizione: esiste, al netto della crudeltà fisica, una cosa più violenta di questa? Probabilmente no. Salvo una.
Starci davvero, zitti.
Per via di quel trucco fetente come il mondo, e che almeno nell’ambito dei rapporti personali funziona fin dall’inizio dei tempi così: può esserci di peggio che vietare a te la tua parola, ed è negarti la mia. E sfogati col muro se ti va.
Si può partire anche da qui per parlare di quella merce d’oro da sempre, come si sa, eppure diventata almeno in apparenza piombo dacché il mondo tutto social ha contribuito a sostituire la nobile usanza muta del cogito ergo sum con la democratica attualità frizzante del «parlo quindi esisto».
Una balla ovvia, detta così. Il cui contrario, è cioè l’assunto per cui a volte non è vero che chi tace acconsente ma semplicemente chi tace comanda, veniva felicemente e una volta di più dimostrato anche in un ambito come quello descritto tempo fa sul Financial Times dall’italiano Giuseppe Conti, docente universitario di trattative economiche: il quale raccontava di quella candidata a un posto da manager che, dopo aver chiesto uno stipendio di 65 mila euro a chi doveva assumerla, di fronte a dieci secondi di silenzio da parte di quest’ultimo abbassò spontaneamente la sua richiesta a 62 mila. E a 60 mila dopo altri sette secondi. In cui quello era stato solo zitto.
Non che sia una scoperta, appunto. Il potere del silenzio è materia letteraria (così a caso prendete il padre di Danny l’eletto che per educare il figlio, come racconta quel genio di Chaim Potòk, non gli rivolgeva una parola per settimane), psicologica (cercate su Google «aggressività passiva» e sinonimi vari e vedete voi quando fermarvi), oltre che ovviamente di saggezza proverbiale di cui qui si omette l’antologia. Il silenzio è lo strumento principale che Sant’Ignazio e i suoi Esercizi spirituali propongono da mezzo millennio, e i monaci benedettini da mille anni prima come via per trovare se stessi e addirittura Dio.
E qualsiasi bravo legale ricorda da sempre al suo assistito — più che mai oggi, con i processi sempre più ridotti a elenco di intercettazioni — che la prima regola per farla franca è star muti. L’avvocato milanese Corso Bovio, un grande spirito scomparso da tanti anni, il diritto al silenzio l’aveva messo come intestazione dei propri biglietti da visita: «Il silenzio è d’oro, avvaletevi».
Peccato che sia, evidentemente, solo una faccia della medaglia. Perché il capo che tace, come ricordava il professor Conti nel seguito del suo racconto, alla fine ce l’ha vinta a una condizione: e cioè che l’interlocutrice accetti quel gelo e stia zitta a sua volta. La sua ricerca era incentrata soprattutto sul mondo del lavoro e sulla capacità di negoziare una posizione contrattuale. Ma l’atteggiamento vale in tutti i campi, nel pubblico e nel privato. Perché il silenzio è potere, può essere denuncia. Ma è anche il loro contrario. È anche paura. È voltarsi dall’altra parte per star zitti. Mentre c’è solo una cosa, quando il silenzio è potere vero, da cui quel potere è e può essere battuto. Ed è la parola. È dire «mi ha sentito capo? ho detto 65 mila». Come ha sperimentato chi ha provato a usarlo, il silenzio come arma. Funziona solo se ha di fronte qualcuno che sta al gioco. Quello che ti fa una domanda, ti chiede una cosa, e se tu stai zitto se ne va. Ma se invece te la ripete il giorno dopo, e poi il giorno dopo ancora, alla fine chi cede sarai tu.
È quella la regola da non scordare mai. Che il silenzioso in genere può vincere la battaglia. Ma la guerra, quasi sempre, la vince il rompiscatole.
Il Corriere della Sera – 28 luglio 2016