Possiamo dirlo che quella legge elettorale è un pasticcio? Forse anche sì, ora che l’ha lasciato intendere pure il Tar, affermando che la disposizione che regola la ripartizione degli scranni residui «appare suscettibile di diverse interpretazioni, ciascuna della quali incide, in diversa misura, sulla assegnazione dei seggi e sulla proclamazione degli eletti», al punto da dover notificare per pubblici proclami la convocazione per il 16 febbraio di una maxi-udienza in cui potrebbero incrociarsi i destini politici di una trentina fra consiglieri regionali eletti ed aspiranti tali. Di certo però ne sono già convinti i vertici di Palazzo Ferro Fini, che d’intesa col Balbi hanno già avviato il processo di revisione della norma.
Al centro del groviglio figurano i famigerati resti. Con tutta la cautela dovuta alla complessità di una matassa che a quasi sei mesi dalle elezioni nemmeno i magistrati sono ancora riusciti a sbrogliare, proviamo a ricostruire il filo del ragionamento normativo. La prima ripartizione dei seggi viene effettuata a livello regionale. Dopo aver individuato il governatore risultato vincente ed il candidato presidente arrivato secondo, viene svolta una prima divisione dei 49 scranni rimanenti tra coalizioni e liste ammesse, in modo da assicurare l’attribuzione del premio di maggioranza. Stabilito il numero di poltrone che spettano a ciascuna lista, si procede quindi alla loro distribuzione nelle sette circoscrizioni provinciali (2 consiglieri ciascuna per Belluno e Rovigo, 9 per tutte le altre). Con questa duplice modalità: attribuzione dei seggi a quoziente intero nelle circoscrizioni, attribuzione dei seggi residuali a livello regionale sulla base dei resti.
Proprio qui però il meccanismo si è inceppato. Tra l’iniziale prospettazione del ministero dell’Interno, la prima proclamazione da parte dell’Ufficio centrale regionale della Corte d’Appello e l’annullamento in autotutela di tale verbale con la definitiva (per ora) ratifica degli eletti, le interpretazioni sono già state tre, al netto degli 11 ricorsi ancora pendenti davanti al Tribunale amministrativo regionale. «Basta così – riconosce Roberto Ciambetti, presidente del consiglio regionale – tant’è vero che, sulla spinta anche del parere di diversi colleghi, ho già messo in moto gli uffici per verificare le debolezze della legge, in attesa che dalle sentenze del Tar possano arrivare indicazioni utili sulla direzione da prendere». I tecnici al lavoro sono quelli dell’ufficio legislativo del Ferro Fini e dell’ufficio riforme istituzionali del Balbi, ma è già stato interpellato pure Paolo Feltrin, coordinatore dell’osservatorio elettorale, in vista dell’incardinamento della modifica in commissione Politiche Istituzionali. «Prima di assumere una decisione sarà opportuno aspettare la valutazione dei giudici sui punti critici del testo vigente – sottolinea il politologo – anche perché abbiamo tutto il tempo di fare le cose per bene. Di certo comunque sarebbe molto rischioso e poco saggio andare di nuovo a votare con una legge elettorale che si presta ad ambiguità».
A chiedere la riscrittura della norma sono anche i ricorrenti. «Sono fiducioso sull’esito della causa che ho avviato dopo essere stato defraudato dell’elezione, ma concordo sull’opportunità di mettere mano alla legge», dice il padovano Tiberio Businaro (Zaia Presidente). «Avremmo voluto correggerla già nella scorsa legislatura, ma saremmo stati accusati di voler fare campagna elettorale, per cui ben venga un intervento adesso», aggiunge Rolando Bortoluzzi (Indipendenza Noi Veneto). Il centrista Marino Zorzato, uno degli eletti a rischio, non si scompone: «Sono stato il più votato della mia lista nella provincia in cui Area Popolare è andata meglio. Ma non vedo tutta questa fretta nel cambiare la legge: chissà da qui al 2020 quante altre ne capiteranno».
Angela Pederiva – Il Corriere del Veneto – 8 novembre 2015