Fatturiamo 140 miliardi di euro, rappresentiamo 6.850 imprese, contribuiamo all’export per 33 miliardi e firmeremo il contratto di lavoro per 385mila lavoratori persone, ma questo Paese ha un preconcetto contro le fabbriche, dimenticare che è qui che si producono ricchezza e occupazione. E la preoccupazione comune oggi dovrebbe essere quella generata dalle dinamiche congiunturali degli ultimi mesi, e dell’ultimo trimestre soprattutto: i consumi interni, che rappresentano ancora il 76% del nostro fatturato, continuano a calare e l’export sta fortemente rallentando, dopo il +7% del 2017 oggi siamo al +2%. La spesa familiare sta crollando a doppia cifra e se quella fuori casa è ancora in positivo lo si deve al forte contributo del turismo». Ivano Vacondio, appena nominato presidente di Federalimentare (e in carica ufficiale dal 1° gennaio) suona l’allarme per il settore, prima all’assemblea generale di Confagricoltura a Bologna e poi al convegno di EY a Parma sul foodtech.
L’amministratore dell’azienda Molini Industriali di Modena succede a Luigi Scordamaglia al vertice dell’associazione.
«Non ho spiegazioni a dinamiche che vedono in calo oltreconfine soprattutto i grandi brand, che stanno soffrendo, mentre tengono le Pmi, a dispetto del principio che per aggredire i mercati è meglio essere grandi e mettersi insieme. E in Italia deve allarmare il fatto che si taglia la spesa non solo di beni voluttuari ma anche di prodotti a basso costo come la pasta», prosegue Vacondio, smorzando a Bologna il clima di ottimismo del sistema agricolo. Così come preoccupa che a calare siano non solo i consumi dei prodotti più costosi ma anche di quelli poveri come la pasta. Si salvano solo gli hard discount», prosegue Vacondio, smorzando il clima di ottimismo che si respira all’assise degli agricoltori e chiedendo al Governo, prima ancora di risorse e infrastrutture, uno scenario di certezza indispensabile agli imprenditori per programmare assunzioni e investimenti. E strumenti per arginare l’attacco costante che arriva dall’estero al “made i Italy”. «Il nostro traino è l’export e dopo Ferrari il nostro simbolo nel mondo è il cibo. Essere leader significa però anche essere attaccati, dal semaforo britannico alle barriere non tariffarie è in atto una guerra commerciale contro i nostri prodotti che non ha niente di scientifico dietro. Una guerra contro cui le aziende da sole, così come Federalimentare, non riescono a fare barriera. Il Governo ci aiuti», aggiunge.
Dalle filiere alla R&S
Una risposta potrebbe arrivare dal dialogo che si aprirà a Roma da gennaio 2019 grazie ai tavoli di filiera che sono stati organizzati dal Governo coinvolgendo tutti gli stakeholder con l’obiettivo di disegnare – con il contributo di tutti gli attori di ogni singola filiera agroalimentare – i futuri 20 anni e poter così intervenire sulla scrittura della prossima Pac a Bruxelles. Due i temi sollevati da Confagricoltura: l’urgenza di infrastrutture moderne per permettere al made in Italy di arrivare sulle tavole internazionali e la necessità di investire in ricerca e valorizzarla anche nel primario. «È una favola da beoti quella sul naturale a tutti costi, non si può fare agricoltura moderna e sostenibile senza utilizzare più nulla. Ricerca e innovazione hanno portato grandi progressi per il benessere dell’uomo e del pianeta, dobbiamo credere nella scienza, investirci ed esigere che la qualità del prodotto sia ripagata», sottolinea Eugenia Bergamaschi, presidente di Confagricoltura Emilia-Romagna.
L’indice Nomisma sulle potenzialità dell’export
«L’Italia è piccola e non è così nota nel mondo, pecchiamo di egocentrismo – rimarca Francesco Mutti, titolare del marchio parmense leader nella filiera italiana del pomodoro – siamo meno dell’1,% della popolazione mondiale e lo 0,4% del territorio. Non basta fare qualità se non creiamo le condizioni economiche per sviluppare nuove condizioni competitive». Gli spazi per crescere oltreconfine ci sono e sono enormi, rimarca il responsabile agroalimentare di Nomisma, Denis Pantini: «L’export dell’agrifood italiano è passato in dieci anni da 24,3 a 40,1 miliardi, ma pesa ancora meno del 24% dei volumi e i nostri competitor, a partire dalla Spagna, hanno aumentato la distanza. Il nostro market share sui mercati mondiali è appena il 3% e, soprattutto, è concentrato per il 66% in mercati di prossimità, in Europa». Sudamerica e Australia valgono appena l’1,5%, l’Asia il 5,7%, la Russia il 7,6% e gli Stati Uniti il 12%. Proprio gli Usa sono il mercato a più alto potenziale per le nostre esportazioni da qui al 2023 e fanno da benchmark al nuovo indicatore sviluppato dal centro studi bolognese “Nomisma italian agrifood market pontential index”. Se gli Stati Uniti valgono 100, il massimo delle potenzialità di export per il made in Italy, le altre mete su cui dirottare gli sforzi commerciali sono prioritariamente Germania (97), Cina (94), Canada (73) e Giappone (72) . Ma tra i gap da affrontare non ci sono solo le infrastrutture logistiche ma il digital gap, perché l’Italia è all’ultimo posto in Europa per infrastrutture digitali e accesso a Internet, ma sempre più i consumatori globali stanno spostando i loro acquisti online.
Il Sole 24 Ore