Fabio Poletti. Ex leghisti, venetisti, sardisti, secessionisti, indipendentisti, giornalisti e pure carristi. Perché alla fine questo Veneto che ancora sogna San Marco e il «glorioso Doge Marcantonio Bragadin», gira e rigira si trova a dover far sempre i conti con i mezzi pesanti dotati di obice a 12 millimetri.
L’elettricista Flavio Contin che nel 1997 avevano preso sul campanile di San Marco mentre gli altri Serenissimi se la giocavano in piazza a Venezia con il «tanko», un trattore dotato di blindatura e bandierina del Leone di San Marco, adesso sognava ancora più in grande. In un capannone di questo paesone di cinquemila abitanti – Patria del mobile e dell’antiquariato è scritto all’ingresso – teneva un altro «tanko» versione 2.0 costruito partendo da una benna. Ma il pezzo forte lo teneva nel giardino della sua villetta bianca. Proprio il «tanko» originale che si era ricomperato ad un’asta giudiziaria un po’ di tempo fa pagandolo 6 mila e 600 euro. E che solo sei anni fa era riapparso a Cittadella in una festa di «Raixe venete», Radici venete per dirla con la lingua dell’invasore.
Alla fine ci vorrebbe un antropologo per spiegare questo malpancismo veneto che tutto tiene insieme. Ma a guardar bene è assai diviso in mille rivoli. Perché se fossero davvero tutti d’accordo i 2 milioni 102 mila e 969 votanti al referendum promosso da plebiscito.eu che vorrebbero un Veneto indipendente e sovrano, il confine di Stato sarebbe già a Desenzano. Qualcuno ci ha riso su. Ma intanto due giorni fa – primo aprile, ricorderà la Storia – la Commissione Affari Costituzionali della Regione Veneto lo ha fatto proprio e lo farà discutere in aula. Gianluca Busato che lo ha promosso voleva scendere in piazza ieri a fianco degli arrestati ma gli han detto che era meglio di no: «Volevo solo che noi veneti tenessimo la testa alta mentre lo Stato italiano perde la sua». Per ora se ne fa niente ma il serissimo assessore leghista Franco Manzato vuol regalare ai veneti la bandiera di San Marco. Matteo Salvini chiama alla mobilitazione a Verona per domenica: «Lo Stato libera mafiosi e clandestini e processa le idee». E alla fine si capisce che della Lega del Veneto, c’è molto in questa storia di carri armati di latta e solide ideologie.
Che tra gli arrestati ci sia pure Franco Rocchetta non ha stupito nessuno. Dopo aver militato nel pri di La Malfa, in Lotta Continua di Sofri, nella Lega di Bossi e aver fondato la Liga Veneta adesso faceva due conti sulla possibilità di fare la secessione. Nel ’64 lo avevano preso a scrivere sui muri contro l’Italia nella Grande Guerra. Pochi anni fa in un’intervista aveva sibilato: «Il Veneto non è Italia». Ora sognava di aprire ambasciate in Croazia e Slovenia. Ma siccome la pugna era di quelle toste tanto valeva guardare alle alleanze senza andare troppo per il sottile.
Felice Pasi, il ministro della repubblica Malu Entru era venuto fino a qui nella Bassa Padovana dalla Sardegna. Dicono che a cena apprezzasse pure il baccalà. Stesso tavola, stessa smorfia antiitaliana, divideva il pane e l’idea di un moschetto pure con quelli del Life, i Liberi Imprenditori Federalisti Europei, il popolo delle partite Iva che oggi nel Nord Est guida la protesta dei forconi. In carcere sono finiti Lucio Chiavegato di Bovolone che infiammava la protesta degli allevatori a Soave. E pure la segretaria del movimento Patria Badii, che due giorni fa era in Senato per essere ascoltata in Commissione Agricoltura.
Ma il sogno dei veneti era molto più grande. Sforava fino alla Lombardia. E fa niente se della Padania a questi qui ne fregava poco. Memorabile la frase di un leader di Raixe Venete che a chiedergli del Sole delle Alpi di Umberto Bossi sibilava: «Per noi c’è solo il Leone di San Marco, mica quella ruota di bicicletta lì». Ma siccome pecunia non olet a metterci buona parte dei fondi era il milanese Roberto Bernardelli, consigliere comunale a Palazzo Marino e poi parlamentare della Lega prima di rompere e finire con Unione Padana diventata poi Indipendenza lombarda. Bernardelli è finito in carcere. L’ex direttore de La Padania Gianluca Marchi solo nel registro degli indagati dopo una perquisizione di otto carabinieri del Ros alle cinque del mattino: «Sei mesi fa li avevo visti a cena. Non mi avevano detto dei loro progetti ma si capiva che volevano fare qualcosa. Allora il referendum non c’era ancora, ma figuriamoci se gli poteva interessare…». Oggi l’ex direttore dirige L’indipendenza, un giornale on line che già dal nome si capisce il programma. Ma alla fine anche se le idee sono sempre quelle, mica è facile trovare una strada comune. Divisi tra referendum istituzionali e calibro 12 come sono. Perché a dirla con le parole di Davide Lovat, l’ideologo e indipendentista veneto ma che c’entra niente con quest’inchiesta, che sui mal di pancia del Nord Est ci ha scritto un libro dal titolo «Lo stato dei veneti» prima di vincere ci sono tre nemici da battere: «I pregiudizi e il senso di inferiorità che ci hanno inculcato dalla nascita, i padroni schiavisti e gli altri schiavi che si sono abituati al giogo». Pure troppi da far fuori con due trattori blindati e un vecchio residuato bellico.
La Stampa – 3 aprile 2014