Repubblica. Un nuovo colpo di scena potrebbe aiutare a fare luce sul mistero delle origini del Covid. Un ricercatore ha ritrovato nella “nuvola digitale” di Google tredici sequenze genetiche del Covid che erano scomparse da un archivio scientifico. L’autore della scoperta, Jesse D. Bloom, ha pubblicato il resoconto del suo lavoro sul server scientifico bioRxiv del Cold Spring Harbor Laboratory. Una delle conseguenze di questa scoperta conferma un sospetto: diverse varietà del coronavirus circolavano nella città di Wuhan prima del dicembre 2019. Le sequenze genetiche scomparse sono 241. Quindi Bloom, che lavora presso il Fred Hutchinson Cancer Research Center, ne ha recuperate da Google Cloud solo una piccola parte. La sua scoperta ha suscitato grande interesse tra gli scienziati americani. Di per sé il ritrovamento non conferma né smentisce alcuna delle due piste prevalenti: quella della contaminazione avvenuta nel mercatino umido di Wuhan, o quella di un incidente avvenuto all’interno del celebre laboratorio virologico della stessa città, in seguito al quale sarebbero stati contagiati dei ricercatori. Ma dall’analisi di quelle 13 sequenze genetiche forse si riusciranno a ricavare elementi aggiuntivi. Viene rafforzata inoltre l’impressione di un deliberato insabbiamento e depistaggio, perché la storia delle 241 sequenze è sconcertante. Erano state raccolte e catalogate da un team medico cinese, tra cui lo scienziato Aisi Fu, dell’ospedale Renimin di Wuhan. Erano state poi archiviate in una banca dati informatica, il Sequence Read Archive, gestito dalla National Library of Medicine che fa capo al governo federale degli Stati Uniti. Poi da lì sono sparite. Una parte però erano state “salvate” nella memoria di Google Cloud, dove Bloom le ha ripescate. Chi e perché ha fatto sparire quei dati così preziosi dall’archivio medico americano? Una possibilità è che sia stato lo stesso scienziato cinese che ce li aveva messi: le regole di gestione di quell’archivio prevedono infatti che chi inserisce dei dati ha anche la facoltà di rimuoverli. La scoperta è destinata ad attirare l’attenzione dell’intelligence Usa, a cui Joe Biden ha chiesto un nuovo rapporto sulle origini del Covid. Tutto va ad alimentare i dossier su cui Washington e Pechino sono ai ferri corti. Ai quali si è aggiunto da oggi l’ultimo colpo sferrato da Xi Jinping alla libertà di stampa: la chiusura di Apple Daily , una delle ultime voci di dissenso a Hong Kong.
Cina, Covid e misteri, è un trittico dal quale non riusciremo a liberarci per molto tempo. Perché Pechino, mentre proclama di aver bloccato la pandemia già da molto tempo, a fine giugno 2021 prolunga di un altro anno la chiusura delle sue frontiere? Per essere precisi si tratta di una semi-chiusura. Possono entrare in Cina coloro che vi hanno la residenza, o visti di lavoro, a condizione che siano stati inoculati con vaccini “made in China”. Inoltre resta l’obbligo della “quarantena dura”, 14 giorni in isolamento in strutture alberghiere ad hoc. Non è una chiusura totale ma comunque è un livello di restrizione elevato, in controtendenza con quel che accade in Europa dove le frontiere vengono riaperte ai viaggiatori anche a scopo di turismo. Questa estensione delle restrizioni sui viaggi sembra nascondere problemi nella gestione della pandemia. La campagna di vaccinazioni cinese è partita in ritardo, e ha sofferto per i dubbi sul livello di “immunità” reale. I vaccini “made in China” hanno avuto una reputazione controversa fin dall’inizio, per la mancanza di trasparenza sui test clinici. Poi dai Paesi stranieri che li hanno comprati sono giunte notizie contrastanti sulla protezione, inferiore a quella offerta da vaccini occidentali.