L’ideale sarebbe avere riforme il più possibile autoapplicative. «È uno sforzo che stiamo facendo: quando nasce un provvedimento di iniziativa governativa – afferma Maria Elena Boschi, ministro delle Riforme costituzionali e dei rapporti con il Parlamento e attuazione del programma di Governo- si cerca di ridurre l’impatto della normativa secondaria. Non sempre, però, è possibile. Talvolta è durante l’esame parlamentare, nella fase emendativa, che i decreti attuativi aumentano: secondo le statistiche di Camera e Senato quella crescita è superiore al 30 per cento. Il Governo, dunque, cerca di fare la propria parte, ma c’è da considerare la fisiologica attività del Parlamento».
Non si può, insomma, non fare i conti con i decreti necessari per rendere operative le riforme. Il carico dei provvedimenti applicativi ereditato dai Governi Monti e Letta ha sfiorato quota mille atti. Ora si è ridotto a 246 decreti in lista d’attesa. Intanto crescono i regolamenti generati dalle manovre del Governo Renzi. Ci sono, però, alcuni nuovi strumenti di sfoltimento e semplificazione, innescati dalla riforma Madia della pubblica amministrazione: quando su un decreto attuativo è previsto il concerto di più ministeri, il parere di questi ultimi deve arrivare entro i trenta giorni, altrimenti scatta il silenzio assenso; inoltre, i provvedimenti applicativi non più necessari possono essere cancellati o modificati per renderne più agevole l’adozione. È quanto è stato fatto con il decreto approvato dal Consiglio dei ministri lunedì scorso.
Sarà l’unico decreto abrogativo?
No, perché la delega prevede che fino alla fine del 2016 il Governo possa emanare altri decreti legislativi sempre di carattere correttivo e modificativo, analogo a quello approvato lunedì.
Quali obiettivi vi ponete sul versante dell’attuazione?
Negli ultimi venti mesi c’è stato un netto miglioramento del tasso di attuazione. È però anche vero che dopo una ricognizione puntuale ci siamo resi conto che ci sono norme che prevedono decreti attuativi ormai superati. Quello compiuto con il decreto di lunedì è una sorta di intervento di pulizia del quadro normativo, che da un lato serve a migliorare la percentuale di provvedimenti da adottare – sono stati abrogati 46 decreti attuativi – e dall’altro è un’operazione di serietà, per evitare che rimangano questioni in sospeso. Lo sforzo di cambiare l’Italia passa anche da quelle che sembrano piccole cose, ma sono molto più strategiche di quello che sembra. Questa per me è una sfida meno visibile ma affascinante quanto le grandi riforme costituzionali.
Con lo stesso provvedimento avete apportato undici modifiche ad altrettante norme attuative. Come avete proceduto?
Si tratta di ritocchi circoscritti, utili a velocizzare l’attuazione di un decreto. Per esempio, in alcuni casi è stato ridotto il numero dei concerti necessari per far arrivare in porto il provvedimento, anche se da questo punto di vista il contingentamento dei tempi ha semplificato molto il sistema.
Perché l’attuazione delle riforme è sempre stata faticosa?
In alcuni casi la difficoltà deriva dalla necessità di mettere d’accordo più ministeri. In questi venti mesi le procedure sono state rese più fluide attraverso riunioni e tavoli di lavoro, promossi dall’ufficio per l’Attuazione del programma, che hanno messo insieme i ministeri concertanti e che sono serviti a trovare l’intesa quando mancava. Problema ora superato dalla norma sul silenzio assenso. Un’altra difficoltà deriva dal fatto che in alcuni casi l’attuazione è legata a provvedimenti che non dipendono dal Governo. Per esempio, il piano dei rifiuti nazionale presuppone quello delle singole Regioni e alcune non l’hanno ancora messo a punto. Dunque, non si può andare avanti. I problemi spesso crescono quando a essere coinvolti sono più soggetti. Tant’è che quando sui decreti ci deve lavorare un solo ministero, la media dell’attuazione sale. Lo dicono i numeri: il tasso di attuazione totale è ora al 70,5% rispetto al 22% di giugno 2014; quella percentuale arriva all’85,6% se si considerano i regolamenti che non prevedono concerti o pareri, mentre cala al 60% laddove è richiesto l’intervento di più amministrazioni.
Nella lentezza dell’attuazione quanto pesa la resistenza delle burocrazie ministeriali?
Non è un problema di questo tipo. Come detto, talvolta è complicato ottenere su un decreto il via libera dei soggetti coinvolti, mentre altre volte ci sono esigenze diverse, come quella di individuare le risorse a copertura di un provvedimento. Le tecnologie ci danno, però, una mano. Il nuovo sistema telematico Monitor, messo in funzione in questi venti mesi, ci consente di parlare lo stesso linguaggio dei ministeri, cioè di avere un’unica banca dati su cui lavorare. Quando sono arrivata ognuno aveva programmi diversi e anche la ricognizione dei decreti attuativi era complicata.
Perché non aprite al pubblico la vostra banca dati? Per il cittadino è utile sapere a che punto sta un decreto attuativo.
Il nostro sistema è già trasparente.
Ma non ci sono i decreti in lista d’attesa.
È un’aggiunta che possiamo valutare. Rispetto al passato, comunque, c’è stato un cambio di passo: non ci si limita più alle paginate in Pdf che elencavano i provvedimenti attuativi. Ora c’è più chiarezza dei dati e il sito dell’ufficio per l’Attuazione del programma è più facile da consultare ed è costantemente aggiornato.
Con tutti questi interventi legislativi, non è necessario un riassetto generale del corpus normativo? Calderoli aveva fatto un falò delle leggi inutili.
È quanto stiamo facendo, eliminando le norme senza più senso. Di certo, non ho intenzione di fare falò. Quello di qualche anno fa non mi pare abbia ridotto granché il numero di disposizioni inapplicabili. Non si sono visti molti risultati concreti. L’obiettivo degli interventi di semplificazione non può essere comunque limitato a ridurre il numero delle leggi, ma deve servire a rendere le norme più chiare per i cittadini.
Antonello Cherchi – Il Sole 24 Ore – 26 novembre 2015