Ce l’ammannirono come l’esempio dell’inveramento di quella I, prima lettera della parola Informatica, che con la I di Inglese e di Impresa, avrebbe dovuto trasmettere ai posteri il segno del buongoverno berlusconiano. Il ministro della Pubblica amministrazione, Renato Brunetta, se ne riempiva la bocca in ogni occasione, ripetendo che la Posta elettronica certificata (Pec), avrebbe rivoluzionato in meglio il rapporto tra imprese, professionisti e Stato. Caduto il governo Berlusconi e diradate le nuvole di incenso con cui era stato avvolto l’argomento, la verità che emerge è molto più pedestre. La Pec è un mezzo bluff. Il giudizio non è di qualche antagonista per partito preso, ma di un organismo neutro: l’Istituto superiore delle comunicazioni e tecnologie dell’informazione (Iscti), dipartimento del ministero dello Sviluppo.
Dall’empireo in cui era stata spinta dalla propaganda berlusconiana, la Pec viene riportata con appena due righette sulla terra, anzi, nel sottoscala dell’informatica. Scrive Sandro Mari, ingegnere dell’Iscti: “La Pec non è interoperabile e, proprio perché non basata su uno standard internazionale, non è integrata in alcuni software di gestione”. Che tradotto significa: la Posta elettronica certificata è un sistema autarchico, valido solo entro i confini nazionali e non si interfaccia con il resto del mondo, dialoga solo con un’altra Pec o con gli uffici pubblici nazionali, quelli abilitati, naturalmente, e quelli dove la sanno adoprare. L’esatto contrario della filosofia della rete, insomma.
SCRIVE ANCORA il tecnico ministeriale: “La Ietf (International Engineering Task Force) ha elaborato un sistema per la posta elettronica che garantisce l’integrità del contenuto, la data e l’ora dell’invio e della ricezione delle comunicazioni e non implica la creazione di un sistema centralizzato per la sicurezza”. Seconda traduzione: c’è un sistema alternativo alla Pec, sicuro, meno farraginoso e per di più non oneroso. Quindi la Pec non solo è autarchica, ma pure inutile.
La stroncatura della posta elettronica brunettiana da parte dell’istituto ministeriale arriva purtroppo quando i buoi sono scappati, con anni di ritardo rispetto all’avvio dell’operazione e quasi per caso. La vicenda Pec inizia addirittura nel 2005 ed è figlia, oltre che di Berlusconi, anche di Lucio Stanca, ex capo Ibm in Europa, Medio Oriente ed Africa, diventato nel frattempo ministro dell’Innovazione tecnologica.
Il compito di costruire il sistema fu affidato alle Poste per la non modica cifra di 50 milioni di euro. Caduto nel 2006 il governo di centrodestra, il progetto entrò in un limbo, ma fu ripreso nel 2008 da Brunetta e rilanciato in orbita. Da allora la Pec si è nutrita di parole e propaganda. Nessuno aveva mai avuto risposta alla domanda cruciale: così concepita, la Posta certificata funziona, serve?
La questione ora è stata sollevata da ‘Cittadini di Internet’, un’associazione che si prefigge di migliorare la vita di chi usa la rete. Il presidente, Massimo Penco, si è rivolto al ministero e ne è scaturito un carteggio di una decina di pagine che ha coinvolto diversi uffici e dipartimenti ministeriali e che il Fatto ha potuto consultare. II responso alla fine è arrivato e somiglia a un de profundis. Il brutto è che aziende e professionisti continuano a pagare per la Pec in media 20 euro all’anno e chi si sottrae rischia una multa piuttosto salata, da 5 mila euro a 50 mila. Dall’altra parte del monitor c’è chi incassa. Milioni e milioni di euro incamerati da 26 gestori iscritti alla DigitPA, l’ente per la digitalizzazione dell’amministrazione pubblica. Si comincia con Aci e si arriva all’Università Federico II di Napoli passando per Aruba, Consiglio del Notariato, Infocert (Camere di commercio), Poste, Sogei, Telecom.
Il Fatto quotidiano – 3 aprile 2012