Dall’ultima parola sulle diagnosi alla concorrenza di internet. La vita dei camici bianchi non è più la stessa. Così, dicono le stime, uno su quattro se potesse tornare indietro cambierebbe strada
Michele Bocci. «Mio nonno era un dio in terra. Nel suo paesino faceva tutto, dai parti al pronto soccorso, e la gente lo amava. Mio padre aveva la stessa passione e 5mila assistiti che chiamavano a tutte le ore. A Natale in casa non si riusciva a camminare da quante ceste di cibo c’erano sul pavimento. Io? Io sono urologo e passo la metà del tempo tra scartoffie e moduli. Tra assicurazioni e telefonate all’avvocato. In un anno mi arrivano i regali che mio padre riceveva in un giorno». La storia di una sola famiglia per riassumere la parabola della professione medica: Fulvio il capostipite, Paolo il figlio e Nicola il nipote. In casa Mondaini a Tavarnuzze vicino Firenze hanno visto cambiare un lavoro che un tempo era considerato di prestigio, uno dei pilastri su cui poggiava la comunità. Un tempo.
Dal massimo riconoscimento sociale alle cause per danni, da una solida sicurezza economica a stipendi non più così alti: la vita dei medici non è più la stessa. E con la società che ha smesso di riconoscere a chi indossa il camice bianco una autorità assoluta, con i pazienti che guardano internet prima di farsi visitare e minacciano esposti per una risposta brusca, anche il dottore ha finito per perdere una parte della sua passione. E diventare anche lui un po’ malato. «Mi sono trasformato in un medico che non avrei mai pensato di diventare: impaziente, talvolta indifferente, paternalista. Molti colleghi hanno la stessa preoccupazione per la perdita dei loro ideali professionali ». Parla di crisi di mezza età sua e della professione il cardiologo di New York Sandeep Jauhar nel suo libro “Doctored: the disillusionment of an american physician”, uscito negli Usa ad agosto sollevando un acceso dibattito nel mondo della sanità. Racconta di tanti medici che si pentono, che se tornassero indietro percorrerebbero una strada diversa. Il 30-40 per cento, dice una ricerca, farebbero altro, molti di più sconsiglierebbero di seguire le loro orme a parenti e amici. «Da noi quel dato è più basso, intorno al 25 per cento secondo uno studio di qualche tempo fa, ma il disagio c’è e si sente». Costantino Troise lavora al San Martino di Genova ed è il segretario nazionale del più grosso sindacato di ospedalieri, l’Anaao. Chi per contratto deve curare gli altri è sempre più disilluso. Gli stipendi sono fermi da anni, per circa 2.700 euro al mese bisogna accollarsi responsabilità, rischi e affrontare il dolore e la morte. Negli ospedali sta arrivando pure il precariato, fino a qualche anno fa sconosciuto in questo settore. E i dottori si lamentano. Secondo una recente ricerca svolta dalla stessa sigla sindacale, il 77 per cento sono insoddisfatti della propria progressione di carriera, più o meno la stessa percentuale ritiene che la retribuzione non sia adeguata.
«La nostra professione è entrata in crisi quando ha preso quota l’aziendalizzazione basata sulle Asl e sono aumentati il controllo delle procedure amministrative, i vincoli e i paletti — dice ancora Troise — Passiamo un sacco di tempo a compilare pratiche e moduli. Negli ospedali si insiste su fattori come la produttività, la velocità, si misurano i volumi di quello che facciamo invece di valutare come lo facciamo. Così, giocoforza, diminuisce il tempo che possiamo dedicare ai pazienti. In media abbiamo solo 10 minuti al giorno per stare con loro». Le visite troppo rapide non danneggiano solo chi è malato, facendolo sentire poco seguito, ma minano anche la passione dei professionisti. «La relazione con i nostri assistiti è il bene più prezioso della sanità — prosegue Troise — Il burn out di tanti colleghi è dovuto anche alla mancanza di tempo per coltivarla». Insiste sul punto anche Lorenzo Speranza, sociologo dell’Università di Brescia che ha scritto tra l’altro “Medici in cerca d’autore” (Il Mulino): «I dottori vedono i manager delle Asl come il nemico peggiore perché piegano la sanità a determinanti economiche. I pazienti invece sono costitutivi non solo dell’attività del medico ma anche della sua identità. Per questo il rapporto con loro è fondamentale. Non per niente è nato un movimento mondiale che promuove la “medicina narrativa”, fatta di ascolto di quello che ha da raccontare il malato. E invece in uno studio Usa si è visto che la prima domanda da parte del medico interrompe il paziente appena 17 secondo dopo che ha iniziato a parlare. Così talvolta non si riesce a capire cosa ha davvero».
Il rapporto con gli assistiti non rischia solo di essere troppo breve ma anche conflittuale. «Abbiamo perso il nostro ruolo sociale anche perché spesso veniamo visti con sospetto e diffidenza — dice ancora Troise — Si con- testa la nostra autorevolezza magari perché si è andati a prendere informazioni su internet. Tanti arrivano da noi dopo aver letto pagine e pagine in rete, e magari pretendono di farsi da soli la diagnosi. Il passo successivo sono le cause per danni, che sono in aumento. A volte siamo portati in tribunale perché non soddisfiamo le aspettative, non solo perché commettiamo sbagli».
Le difficoltà e i dubbi che preoccupano chi è già specialista non sembrano toccare chi cerca di far parte della categoria: ogni anno migliaia di giovani fanno i test per entrare a Medicina. «Vedono questo mondo come una delle poche alternative accettabili — dice ancora il sindacalista Anaao — E fanno fatica a comprendere rischi e difficoltà che comportano i 12 anni di studio e soprattutto quello che viene dopo ». Fa eco Giacomo Milillo, che invece rappresenta i medici di famiglia come segretario Fimmg. «Il “calo della vocazione”, inteso come disillusione e poca voglia di fare certe attività mediche arriva dopo la laurea, al momento dell’iscrizione i giovani non hanno le idee chiare su quello che li aspetta. Cercano un professione che gli permetta di trovare lavoro». I medici di famiglia sono forse i professionisti che hanno visto maggiormente cambiare il loro ruolo sociale. Non sono più i tempi di Fulvio Mondaini, che suo nipote racconta come la «leggenda» del suo paese. «Anche noi abbiamo troppo a che fare con la burocrazia — dice Milillo — e ci siamo un po’ persi per strada il nostro ruolo perché siamo stati sostituiti dagli specialisti. Un tempo non ce n’erano tanti e i nostri colleghi si occupavano di tutto. E gli assistiti non si affidano più totalmente alle nostre cure, ma danno suggerimenti e sono molto esigenti. Ma per fortuna, nonostante tutto, siamo la categoria che continua a registrare il minor numero di contenziosi medico- legali, perché sono tanti a darci ancora fiducia». Forse è partendo da qui che c’è ancora speranza per recuperare la passione dei medici. «In fondo c’è ancora una quota importante di ammirazione per questa disciplina, soprattutto quando si coltiva il rapporto con il paziente, che può essere il miglior alleato del medici », chiosa Lorenzo Speranza. Bisogna provare a ripartire dalla fiducia, lavorare sulle relazioni tra professionista e assistito dentro gli ambulatori e gli ospedali. La ricetta per qualcuno è già chiara. «Se non sai parlare con la gente non vai avanti — dice Nicola Mondaini — Ma questo non te lo insegnano all’università, io l’ho capito grazie a mio padre e mio nonno». Fare parte di una famiglia di medici da quasi cent’anni può ancora avere i suoi vantaggi.
Se l’evoluzione delle cure è un boomerang per il paziente
Marco Venturino. Tutto cambia, tutto si modifica, tutto scorre. A maggior ragione si verificano cambiamenti laddove l’intelletto umano scopre, inventa e crea tecnologie sempre più sofisticate e la medicina, in questi ultimi cento anni, è stato un campo di stupefacente innovazione ed evoluzione.
E il mestiere del medico? Non può che cambiare anch’esso, ovviamente. Ma non sempre l’interpretazione dell’evoluzione sfocia in trasformazioni benefiche. E mi spiego. Il sapere del medico una volta era molto più globale. Oggi si sa molto di più ma sapere di più porta giocoforza a limitare il campo del proprio sapere. Quindi si diventa specialisti e ultraspecialisti. E questo è positivo perché se io so molto posso fare molto. L’errata interpretazione invece è che la superspecialità mi può portare a curare la malattia.
Ma il medico deve curare il malato.
Una volta la medicina era solo esperienza. Si procedeva per tentativi. Oggi la cosiddetta medicina basata sull’evidenza porta a cure più precise, protocolli condivisi, risultati che devono essere più scontati. Insomma esistono degli standard di cure che dovrebbero limitare gli insuccessi e le inefficienze. Questo porta con sé il fatto che l’agire del medico può essere controllato, misurato e, conseguentemente, anche giuridicamente vagliato. Ma questo per contro, sia per incapacità dei professionisti a mantenere gli standard che per richieste illegittime di risarcimenti, porta alla cosiddetta medicina difensiva dove l’obiettivo della cura è quello di non incappare in sanzioni o procedimenti penali che possano nuocere al medico.
Ma il medico deve curare il malato.
La medicina antica era un’arte a metà tra la pratica religiosa e la magia e il medico era l’unico officiante del rito. Il malato accettava tutto quello che il medico decideva. Da qui il famoso e mai troppo deprecato paternalismo medico. Oggi la scientificità della medicina, l’aumento del livello culturale e la possibilità di documentarsi hanno tolto al medico quest’aura di grande stregone e hanno, seppure a fatica, introdotto il concetto di autonomia decisionale del paziente. Il paziente è libero di scegliere la propria cura. Ma la libertà è sempre un peso difficile da sopportare, soprattutto quella degli altri. Ci si deve mettere in discussione, ci vuole tempo da dedicare e voglia di ascoltare. Ma solo in questo modo si rispetta il malato. Proprio perché è gravoso e difficile rispettare la libertà altrui spesso il medico diviene sfuggente, sibillino, spiega poco, per salvaguardare più che altro la propria intoccabilità professionale.
Fino a pochi anni fa i successi della medicina in termini di guarigioni e sopravvivenza erano piuttosto scarsi. Oggi si ottengono risultati sicuramente strepitosi. Questo però porta con sé il fatto che la spesa sanitaria sia lievitata e, in un mondo di risorse limitate, diviene necessario che anche i criteri economici vengano considerati. Ma l’attenzione alle risorse non deve trasformare la medicina in una azienda. Se il bilancio diviene la priorità si cura il lucro.
Ma è quindi ineluttabile che la buona evoluzione della medicina porti con sé la possibilità di conseguenze negative per il malato e anche per il medico? Io credo che il punto cruciale sia nell’essenza stessa della medicina. Che non è scienza, non è una pratica giuridica, non è un’ambizione professionale, non è un traguardo economico ma è esclusivamente un servizio per l’altro. E questo non deve né può cambiare.
(Marco Venturino è primario di anestesia e rianimazione dell’Ieo di Milano)
Repubblica – 26 settembre 2014