di Sergio Rizzo. «A volte ho più rispetto dei casalesi che dei colletti bianchi, quelli che maneggiano i soldi più sporchi ma si comportano come se avessero sempre le mani pulite». Chi conosce bene Raffaele Cantone ha già sentito pronunciargli questa frase. Subito seguita da un sorriso: «Ovviamente è una provocazione».
Ma una provocazione che gli serve per dare più forza a una dichiarazione di guerra senza quartiere alla corruzione. Ovvero, Il male italiano, come recita il titolo del libro che esce domani edito da Rizzoli. È una sua lunga intervista con Gianluca Di Feo, giornalista dell’ Espresso che giovanissimo cronista del Corriere aveva seguito le vicende di Mani pulite. Coincidenza singolare, arriva in libreria proprio mentre le cronache sono sconvolte da un nuovo scandalo. E sembra di leggere una profezia, scritta ben prima degli ultimi arresti, quando il presidente dell’Autorità anticorruzione racconta che «nella pubblica amministrazione le carriere sono troppo spesso una proiezione degli equilibri politici».
Un fenomeno, aggiunge, «addirittura incentivato da alcune riforme che hanno creato burocrati part time, come i dirigenti a contratto e quelli a chiamata diretta. Sono figure introdotte per rispondere a un’esigenza concreta: arruolare professionalità specifiche (…) senza bisogno di fare concorsi dalla procedura elefantiaca. Il problema è che questi dirigenti a tempo, di proroga in proroga, finiscono per restare al loro posto». Come Ercole Incalza, appunto. E stare troppo a lungo sulla stessa poltrona rischia di diventare un grosso problema.
Ecco perché «Liberarsi dalla corruzione per cambiare il Paese», parafrasando il sottotitolo del libro, impone alcuni accorgimenti. «Per prima cosa», secondo Cantone, «si dovrebbe introdurre la rotazione degli incarichi delicati, oggetto privilegiato delle lusinghe dei corruttori (…) Fino a pochi decenni fa era una regola: dopo un certo numero di anni, prefetti, questori, ufficiali delle forze dell’ordine, magistrati, ispettori fiscali, dovevano fare le valigie e cambiare città (…) È un principio di garanzia, evita le incrostazioni in cui nasce il malaffare, impedisce che si coagulino rapporti stretti e definitivi con il proprio dirigente e l’ambiente esterno. Purtroppo ogni tentativo di mettere in moto meccanismi virtuosi si scontra con visioni corporative che contribuiscono a immobilizzare il settore pubblico». E qui ce n’è anche per i sindacati, vittime di una «logica corporativa che li ha resi custodi della peggiore burocrazia». Mentre «sul fronte della lotta alla mafia il sindacato è stato molto determinato», Cantone dice che «nel contrasto alla corruzione non si percepisce ancora la stessa sensibilità. Questo perché i sindacati tendono a difendere gli interessi individuali dei lavoratori in modo assoluto. In qualche caso si sono persino schierati dalla parte di dipendenti accusati di furti, spesso sorpresi in flagranza di reato (…) questa linea ha finito per favorire seppur in modo indiretto e involontario, corruzione, illegalità e malaffare» .
Sergio Rizzo – Il Corriere della Sera – 18 marzo 2015