Il rilancio economico costituisce l’obiettivo più urgente della prossima legislatura: i dati sulla produttività, sui livelli della disoccupazione giovanile, sul calo dei consumi dicono che la situazione, ormai insostenibile anche dal punto di vista sociale, va affrontata con coraggio, senza limitarsi a un’ottica di breve periodo, ma avendo in mente di riqualificare il modello su cui l’economia italiana si è retta negli ultimi decenni.
L’articolo 1 della Costituzione italiana recita che l’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro. Un’affermazione coraggiosa che non esprime solo un condivisibile sentimento civico, ma anche una profonda verità economica. I costituenti, infatti, erano consapevoli che la prosperità dell’Italia, priva di materie prime, di fonti energetiche e di influenza politico-militare, dipende dalla sua capacità di produrre valore. Affermazione che, con le categorie del secondo dopoguerra, concretamente passava attraverso la centralità lavoro — elemento cruciale per raggiungere un punto di sintesi tra i legittimi interessi della produzione e quelli, altrettanto legittimi, della popolazione. Questa profonda verità, scritta nella Costituzione, è stata con gli anni dimenticata. Giunta, nel giro di poco più di tre decenni, al benessere, la società italiana è felicemente entrata nell’era dei consumi, che hanno poi caratterizzato cultura e stili di vita degli ultimi trent’anni. Gli anni Ottanta sono stati il decennio della svolta: fu quello il momento In cui, anche a seguito dei mutamenti culturali intervenuti nei difficili anni Settanta, cominciò a prender vigore l’idea di una modernizzazione finalmente liberata da quel moralismo latente che trasudava nell’Italia ancora troppo «cattolica». Erede di Craxi, Berlusconi — l’uomo della televisione e della pubblicità — è stato l’emblema della stagione che si è aperta con la cosiddetta Seconda repubblica. Salutato come un imprenditore, in realtà Berlusconi
è stato essenzialmente un grande venditore. E, prima con le televisioni e poi come politico, ha detto alla società italiana quello che la società italiana voleva sentirsi dire: la crescita coincide col benessere che, a sua volta, coincide col consumo. Travolta da questa ondata culturale, la sinistra si è limitata a inseguire la corrente, mettendo in campo le armi della sua tradizione, a partire dalla difesa degli interessi costituiti. La lotta politica per il consenso ha fatto il resto. La manica larga della spesa pubblica e la tacita accettazione dell’evasione hanno definito i termini di uno scambio al ribasso in cui era l’accesso al consumo a qualunque condizione la vera moneta per il successo politico. Così, mentre il mondo si globalizzava, spostando verso l’alto l’asticella dell’innovazione, dell’efficienza e della complessità culturale, l’Italia si è avvoltolata su se stessa, girando attorno al mito superficiale del consumo, senza darsi troppa pena di riprodurre quel valore che, un po’ per volta, veniva nel frattempo dilapidato. Lo conferma il modo in cui gli interessi economici internazionali hanno guardato al nostro Paese: un grande mercato da sfruttare più che un luogo dove effettuare investimenti produttivi. Lo scambio ha funzionato per quasi un ventennio, anni nei quali il debito pubblico — che si è impennato a partire dagli anni Ottanta — ha costituito il galleggiante di una società convinta ormai di aver risolto i propri problemi. Col tempo — e poi soprattutto con l’entrata in vigore della rigida disciplina dell’euro — il debito da galleggiante si è trasformato in zavorra che, nel momento in cui scoppia la crisi finanziaria internazionale, è divenuta insostenibile. I dati sulla produttività, sulla disoccupazione giovanile e sui consumi ci dicono che quella stagione si è definitivamente chiusa. Per uscire dall’angolo, l’unica via d’uscita è riprendere e aggiornare la strada tracciata dai costituenti. Se vuole sostenere i suoi consumi — che nel frattempo abbiamo culturalmente imparato ad apprezzare — l’Italia deve tornare a produrre valore, senza accontentarsi di consumarlo.
Per un’economia e una società avanzata ciò significa cambiare il proprio orientamento di fondo. Creare valore significa, infatti, disporre di un sistema di priorità condiviso capace di rispondere alle sfide poste dalle nuove condizioni storiche nelle quali ci si trova a operare. Un sistema di priorità che si basa su investimenti nella scuola e nella formazione nella consapevolezza che il capitale umano è la prima e fondamentale ricchezza di una comunità; tagli agli sperperi della spesa pubblica inefficiente e improduttiva per sostenere l’università e la ricerca; riconoscimento, anche fiscale, delle imprese che innovano, investono ed esportano perché sono fonte di ricchezza collettiva; valorizzazione del lavoro a partire da salari adeguati e condizioni contrattuali promozionali e premianti; avvio di una grande stagione di investimenti infrastrutturali e di ammodernamento della pubblica amministrazione e dell’intero sistema dei servizi che rappresenta pur sempre il 709 di un’economia avanzata. Da questo punto di vista, il passaggio elettorale costituisce un’occasione storica. Dopo il governo tecnico, l’Italia ha bisogno di leader che le spalanchino la porta del futuro. Il tema è il superamento di un modello economico basato sul circuito consumo-rendita-debito pubblico in favore di un nuovo schema centrato su valore-investimento-lavoro. Anche se l’inizio della campagna elettorale non sembra essere incoraggiante, speriamo che i candidati non dimentichino l’appuntamento a cui l’Italia è chiamata.
di MAURO MAGATTI – Corriere della Sera – 15 gennaio 2013