di Federico Fubini. Qualche tempo fa Marco Palmieri, 51 anni, si è imbattuto in un problema che non aveva previsto quando nel 1987 iniziò a produrre borse e valigie: come collegarle alla Rete. Se voleva crescere ancora con la sua Piquadro, doveva integrarle all’Internet delle cose e farle interagire con un’icona sullo schermo di uno smartphone.
Palmieri si rivolse a un studio di ingegneri suoi coetanei, e questi gli illustrarono molte funzioni digitali. Tutte inutili. Nessuna faceva funzionare meglio uno zaino di pelle o una valigia in un aeroporto. L’impasse stava diventando così frustrante che un giorno in azienda Palmieri si sfogò alla macchinetta del caffé con alcuni dipendenti fra i 20 e i 30 anni. Fu la svolta: in poco tempo quei ragazzi idearono una App per allucchettare le valigie e un sistema di sensori collegati allo smartphone per pesarle o segnalarne la posizione. Non erano specialisti del digitale. Erano, semplicemente, giovani al lavoro.
Il problema dell’Italia degli ultimi vent’anni, e ancor più dei prossimi venti, è che storie del genere diventano rare. Nei luoghi in cui si genera la ricchezza del Paese stanno venendo meno le principali fonti di innovazione: i giovani. Una ricerca del «Corriere della Sera» sulla base della banca dati dell’Istat mostra come la demografia del lavoro in Italia stia subendo uno smottamento sotterraneo, quasi unico in Europa per intensità. Oggi essa è alla radice di buona parte del letargo dell’economia italiana e spiega un bel po’ della lentezza con cui la produttività del lavoro avanza rispetto alla media dell’area euro (dall’inizio del secolo, del 12% in ritardo). L’invecchiamento negli uffici e nei piani fabbrica è così veloce che obbliga a ripensare al più presto a come in Italia si studia, ci si aggiorna e ci si organizza in azienda. Del resto non esiste altro modo di far emergere i punti di forza nascosti in quella che, lasciata a se stessa, diventa ormai la grande debolezza del Paese.
I numeri, a prima vista, non perdonano. Non c’è solo l’aumento medio di quasi sei anni dell’età media degli occupati in Italia nell’ultimo quarto di secolo, da 38 a quasi 44 anni. Colpisce di più come questo stia accelerando: a partire dal 2008 l’età media dei 21 o 22 milioni di persone al lavoro nel Paese aumenta in certe fasi di sei mesi ogni anno, o poco meno; solo gli sgravi alle assunzioni e il Jobs act sembrano contrastare un po’ la deriva.
Su dinamiche del genere conta la pura e semplice demografia: in Italia vive la popolazione dall’età mediana più alta al mondo (45,1 anni) dopo la Germania e il Giappone. Incide però anche l’ultima riforma delle pensioni, che dal 2011 ha allungato la permanenza dei più anziani al lavoro per riequilibrare il sistema dopo decenni di promesse insostenibili. Pesa poi soprattutto l’emarginazione dei giovani: il tasso di occupazione per chi ha fino a 24 anni è appena del 17% (studenti ovviamente esclusi).
Così nell’ultimo quarto di secolo i luoghi del lavoro in Italia hanno subito una trasformazione antropologica, che prosegue. Sono sparite 3,6 milioni di persone di meno di 35 anni (erano quasi 9 milioni, sono poco più di cinque). Sono apparse 4,2 milioni di persone in più la cui età supera i 45 anni; il numero dei lavoratori attivi fra i 55 e i 64 anni è raddoppiato da due a quattro milioni, tanto che il Fondo monetario internazionale stima che in Italia nel 2020 un quinto degli occupati sarà in questa fascia e nel 2015 lo sarà quasi un occupato su quattro.
In sostanza i lavoratori più giovani, energici e innovativi si sono rarefatti dal 41% al 22% della popolazione produttiva; quelli più anziani sono aumentati da un terzo alla metà. Una parte devono averla le preferenze culturali nel Paese per persone più esperte, o più ricche di rapporti sociali, perché il numero degli occupati di oltre 65 anni è esploso: oggi questi lavoratori anziani sono oltre mezzo milione, più 41% in 25 anni.
Naturalmente questa non è una torta immutabile — non è un gioco a somma zero — perché oggi lavorano in Italia quasi due milioni di persone in più rispetto vent’anni fa (22,9 contro 21 milioni). Nell’economia attiva può esserci spazio per tutti. Ma una composizione così squilibrata delle età del lavoro ha conseguenze. Uno studio dell’Fmi del dicembre scorso («The Impact of Workforce Ageing on European Productivity») mostra che l’Italia, con la Grecia, è la più esposta a perdite di produttività proprio perché gli occupati invecchiano: da due decenni questo fenomeno sotterraneo sta limando via uno 0,2% l’anno dalla capacità di far crescere il valore generato in un’ora di lavoro; sono differenze impercettibili nel breve, ma corrosive per profitti e salari quando si accumulano nel tempo. Secondo lo studio dell’Fmi l’invecchiamento erode le capacità nei lavori più fisici e in quelli meno ricchi di conoscenze; non ha effetti su addetti alle vendite, impiegati di banca o periti elettronici; e l’accumulo di esperienza addirittura aumenta la produttività per funzioni dense di conoscenza come quelle di docenti, avvocati, medici, giudici o manager. Il problema dell’Italia è che la sua quota di laureati e diplomati è fra le più basse d’Europa: deve farla salire in fretta per affrontare il giorno, vicino, in cui l’età media degli occupati arriverà al mezzo secolo o più.
A Gaggio Montano in provincia di Bologna, la Piquadro di Palmieri forse ha trovato una soluzione. Da qualche tempo in azienda si aggira un ex dirigente pensionato della Miroglio. Il suo nome è Antonio Colantuoni. Il suo compito è parlare un po’ con tutti, specie i più giovani, per capire cosa pensano dell’azienda, del mondo e di se stessi. «Li aiuto a tirare fuori i problemi, a capire e sviluppare il loro potenziale», dice. Questo è un metodo che Colantuoni ha messo a punto in 35 anni di lavoro alla Miroglio, e funziona. Fa girare meglio le imprese. «Lo avessi capito prima, mi sarei fatto del bene — ammette —. Ma c’è un valore nell’età che avanza».
Il Corriere della Sera – 21 febbraio 2017