Romano Prodi, uno che le stanze di Bruxelles le ha frequentate a lungo, la mette così: «Siamo stati messi sotto processo da maestri che non hanno un gran diploma nemmeno loro».
Potesse farlo, Letta sottoscriverebbe una per una quelle parole. Perché ciò che gli brucia di più del giudizio dell’Europa sulla legge di Stabilità non è quello strettamente tecnico. In fondo, dicono fonti governative, «i paragrafi dedicati a Francia e Spagna sono più severi». Vero, in particolare nel caso di Madrid. Quel che al premier non è andato giù è semmai l’eccesso di zelo «un po’ ragionieristico» che ha sottratto all’Italia i tre miliardi di «premio» per gli investimenti che fino ad ora sembravano garantiti dal rispetto del 3% e e che il governo, sin dal suo insediamento, aveva dato per sicuri. Ciò che ha sorpreso il premier di quel giudizio è l’essersi fermato ai numeri senza tenere conto del contesto politico in cui il governo ha agito. «Quello trovato era l’unico punto di equilibrio possibile», ripetono da Palazzo Chigi. «Ci saremmo meritati un po’ di fiducia in più». Per di più – raccontano a Bruxelles – il commissario agli Affari monetari Rehn ha anticipato il giudizio a Saccomanni solo mercoledì sera, costringendo i funzionari italiani della Commissione ad un disperato tentativo di trattare qualche ritocco al testo.
Piaccia o no, con i nuovi poteri attribuiti dai nuovi Trattati Letta non può prescindere da quel giudizio. Tanto vale far di necessità virtù. «Se doveva servire a qualcosa, chi nei partiti pensava possibile rivedere i saldi ora sa perché non lo è». Letta non fa nomi, ma i tremila emendamenti e le parole di leader come Epifani («ci vogliono 2,5 miliardi in più») sono due fra i tanti esempi possibili.
Il problema ulteriore è che ora Bruxelles si aspetta fatti concreti. Poco importa se prima o dopo la legge di Stabilità, certamente entro la fine dell’anno. E al di là dei tecnicismi sulla manovra, quel che in ultima istanza preoccupa l’Europa è la tenuta dei conti italiani. Sulla carta il governo dovrebbe recuperare mezzo punto di «aggiustamento strutturale», otto miliardi di euro. Ma a Bruxelles gira voce che la Commissione si accontenterà di tre-quattro miliardi, giusto quel che manca per centrare gli obiettivi di deficit di quest’anno. Letta ha di fronte a sé due strade: far finta di nulla e tenere il punto, oppure evitare strappi e adeguarsi in qualche modo al diktat. La prima è apparentemente già imboccata, e lo renderebbe più simpatico agli occhi dei detrattori dell’Europa di Maastricht. Ma con i conti pubblici che ci ritroviamo nessuno – tantomeno un europeista come lui – può permettersi scorciatoie.
Spiega una fonte vicina al premier: «Per noi i saldi sono quelli decisi, ma se il Parlamento ritiene opportuno migliorare la qualità della manovra nel senso indicato dall’Europa non saremo noi a impedirglielo».Nnella storia repubblicana non si è mai visto un Parlamento pronto a rendere più severa una manovra di bilancio, ma in fondo non è nemmeno impossibile crederlo, basta suggerire gli emendamenti giusti e affidarsi al voto di fiducia. Come tutto questo possa conciliarsi con l’imminente scissione del Pdl è tutto da vedere. Ma è un fatto che fra i lealisti del premier l’aria è decisamente cambiata. Basta ascoltare il relatore Pd in Senato, l’ex Cisl Giorgio Santini: «Dobbiamo migliorare la manovra su tre fronti: rafforzare le misure per la crescita, definire in maniera più certa gli obiettivi di gettito da privatizzazioni e quelli sulla riduzione della spesa».
La legge di Stabilità non sarà stravolta, non c’è lo spazio politico per ottenere un cambiamento di rotta così forte. Ma qualche modifica utile a recuperare credibilità nei confronti di Bruxelles il governo la suggerirà. Ci sarà un emendamento per far entrare nella manovra la rivalutazione delle quote delle banche in Banca d’Italia (garantirà almeno un miliardi una tantum), un altro costituirà un nuovo fondo di garanzia presso la Cassa depositi e prestiti, una misura che nelle intenzioni dovrebbe far risalire il credito delle banche. Ma la questione più decisiva è rivedere la progressione dei risparmi previsti dalla spending review del nuovo commissario Carlo Cottarelli. Al momento sono calcolati 600 milioni nel 2014, 3,7 nel 2015, 7 nel 2016, 10 nel 2017. Saccomanni, peccando di ottimismo, ieri ipotizzava «un risultato a regime pari ad almeno 1-2 punti percentuali di prodotto interno lordo»: due punti di Pil sono trenta e più miliardi, il triplo di quanto programmato finora. I funzionari italiani della Commissione sanno che personaggi come il finlandese Rehn chiede fatti, non vaghe promesse. Così il suggerimento già recapitato a Roma è di andare per obiettivi credibili, come quello di far salire i risparmi dell’anno prossimo da 600 milioni ad almeno 1,5-2 miliardi. «Quando vedremo risultati sbloccheremo la clausola per gli investimenti», diceva ieri Rehn. «Del resto, si sa che il pudding è buono solo quando lo si assaggia». Quello arrivato da Roma a metà ottobre non gli è piaciuto per nulla.
La Stampa – 16 novembre 2013